sabato 23 ottobre 2010

Kafla l'oscuro



E' sera. Una sera qualunque su questa terra che sa essere madre e meretrice allo stesso tempo.
Una mosca volteggia lentamente tra le pieghe della mia stanza.
Non ho fretta di cacciarla. Solo fastidio, di tanto in tanto, se osa avvicinarsi alla pelle. Ma forse - la mia -  è solo pigrizia: in fondo se avessi più fermezza la ucciderei, porrei fine al suo tormentoso ronzìo e mi sentirei liberata, in pace.
Nel silenzio rivoltato come un guanto logoro mi soffermo sulle pagine dell'odiato e amato "Castello" di Kafka.
Peso e tormento. Inevitabilità. Giudizio.
E mi trovo a discordare con l'ipotesi dell'illustre Citati che vede nel Castello un'immagine di Dio, irraggiungibile, sicura, immota.
Il Castello per Kafka è l'utopia del dominio del sè, la conoscenza assoluta del proprio essere da cui deriva il controllo sulla propria vita, sul proprio destino. E nel romanzo K., il protagonista, non sarà mai messo in condizione di giungere a destinazione  poichè l'autore stesso sa che una simile possibilità gli sarà sempre negata. E ciò che è peggio, in realtà egli - in qualità di scrittore - non desidera affatto  accedervi poichè teme di perdere ciò che ha di più caro, ovvero quell'eccesso di agonizzante follia che - costretta dalla lucida ragione ad essere recintata e ammansita come una mandria furente - conduce alla letteratura.  "Questa discesa alle potenze oscure, questo scatenamento di spiriti legati per natura, i problematici amplessi e tutto quanto può avvenire laggiù, di cui qua sopra non si sa mai nulla quando si scrivono racconti alla luce del sole. Forse esiste anche qualche altro modo di scrivere, ma io conosco soltanto questo."
Leggere questo romanzo è come addentrarsi nella coscienza di un uomo totalmente accecato dal proprio limite eppure di esso talmente conscio da averlo quasi digerito ed espiato attraverso la sofferenza e la sua vacuità. Il Castello è dunque un libro che - a parte angoscia febbrile ed un incolmabile senso di vuoto - non lascia nulla dietro di sè, perchè questo era ciò che Kafka esattamente desiderava. Ciò che perdura nell'animo è solo un senso di vana pietà per la tragica inconcludenza della condizione umana, per l'inutile assurdità del combattere a favore di uno scopo. E' un testo - a mio modesto avviso - che non mette in moto alcun proposito, non lascia sedimenti contenutistici ma scolpisce nell'anima un sentore vago di dissolvimento e morte, una morte che giunge costantemente circondata da un alone di noncuranza e inevitabilità.
E' un libro senza alcuna via di fuga, che non lascia scampo.
Certamente qui Kafka si spinge molto più in là rispetto al Processo, si avventura ancora più smodatamente nel mondo dell'assurdo in un modo tanto più doloroso da parere al lettore quasi insopportabile. Pagina dopo pagina si scivola nell'accettazione dell'irrisolutezza, del fallimento, quasi senza accorgersene, senza nemmeno più ascoltare quell'innato senso di giustizia che interiormente continua a far giungere il proprio disappunto. E infine non si riesce più a provare rabbia per l'esclusione da parte del protagonista K. dalla comprensione di qualsiasi meccanismo esterno concernente il suo andirivieni nel mondo, il suo vano lottare per obiettivi di volta in volta sempre più modesti. Costernazione e impulso alla fuga  sono gli unici barlumi di reazione sensata che la mente riesce ancora a produrre benchè stordita dalle contraddizioni, dalla drammaticità del non-senso, dalle voragini prodotte dal sadismo burocratico in cui K. si ritrova a naufragare.
E' una vertigine che provoca paralisi.
E la paralisi riesce anche a soffocare l'ultimo istinto salvifico che vede nella partenza del protagonista l'estrema possibilità di redenzione. K. stesso non può più contemplare questa ipotesi, talmente è ormai vittima del sistema; e noi con lui.
Nessuno lo trattiene, nessuno lo ha accusato o imprigionato (come avvenne per il K. de Il Processo).
Egli imprigiona se stesso, l'ego di K. è la sua medesima condanna. Questo è il modulo letterario che Kafka utilizza per dire a se stesso e a noi tutti che ciascuno è prigioniero di sè prima ancora che di tutto ciò che gli gravita intorno, è prigioniero del proprio limite prima ancora che del Castello.
E' un libro difficile, questo. Un libro che fa sudare ad ogni riga, ad ogni pagina.
Un libro ostico che parla dell'incubo attraverso immagini miti e un linguaggio semplice.
A coloro che non avessero tempo e pazienza bastevoli per avventurarsi nella lettura dell'intero romanzo consiglio vivamente di gustarsi il solo capitolo 11° intitolato "Nella scuola" che oltre ad emanare un fascino letterario molto intenso, riassume in breve il senso di ogni argomento trattato nel Castello. A me ha dato come l'impressione di essere il racconto di un incubo per molte persone assai ricorrente: quello di svegliarsi in pigiama in un luogo pubblico e da tutti i presenti essere derisi e scherniti  a causa del proprio imbarazzo e divenire infine vittima di pubblico rimprovero poichè - per via dell'evidente disagio -  si sta disattendendo al proprio lavoro. Il paradosso celato dietro questo splendido racconto nel racconto potrà dare un'idea dell'amarezza e della solitudine estrema che vive il protagonista nel corso dell'intera sua vicenda, un'amarezza derivante dall'impossibilità sempre più evidente di avere il benchè minimo contatto con il potere, con l'ombra celata dietro le tendine che decide il destino della vita a nostra insaputa.
Per quanto possa sembrare ardimentoso - e so che probabilmente questa ipotesi verrà additata come falsa e tendenziosa - io vedo nell'immagine che Kafka costruisce del potere la capacità logica e razionale dell'uomo di badare a se stesso, di vincere i propri demoni, di costruire la propria vita con cognizione di causa, al di là del merito e dell'etica personale. Ciascuno ubbidisce in qualche modo al proprio "potere" interiore: in alcuni questo potere ha connotati vincenti e superiori per nascita, in altri ha il volto del "self made man" che lottando arriva a destinazione, in altri è del tutto assente come nel suo caso.
Non a caso Citati scrive : "Se Tolstoj cercò per tutta la vita di scoprire cosa racchiudesse il tesoro invisibile e segreto della felicità, Kafka non sopportava la felicità: temeva che la gioia di vivere lo rendesse disattento alla voce del destino. Il suo obbligo era di ascoltare l'angoscia e la disperazione, e di andare fin dove esse lo consigliavano".
Vi lascio in ultima battuta con le parole di Kafka stesso: "Tutto è fantasia: la famiglia, l'ufficio, gli amici, la strada; tutto fantasia, più lontana o più vicina, la donna; ma la verità più prossima è solo che tu premi la testa contro il muro di una cella senza finestre e senza porte."

Francesca

PS: Consiglio vivamente due testi sulla vita di Kafka molto affascinanti. Il primo è "Kafka" di Pietro Citati, ed. Adelphi; il secondo è "Conversazioni con Kafka" di Gustav Janouch, ed Adelphi.

5 commenti:

  1. Conosco quel senso di disagio, quasi di nausea... è lo stesso che si prova dopo aver letto "The catcher in the rye" di Salinger (da noi tradotto "Il giovane Holden" data l'inefficacia della semplice traduzione "L'acchiappatore nella segale"). Non dà scampo. Come svegliarsi dopo un trapianto d'anima... come sentirsi estranei alla stanza, al mondo o all'esistenza.

    tuo fratello di due vite fa
    Agostinelli

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  2. Sei proprio mio fratello....
    E forse non di due vite fa.
    Probabilmente neppure di una.
    Auspico solo che sia per la prossima: sarebbe un onore e una grande gioia.

    Francesca

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  3. ...probabilmente il tuo essere così ricca, ti porterà ad essere sempre più semplice, vicina alla verità ed ancora più bella, se si può...

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  4. Essere semplice, essere nella Verità.
    Credo che un augurio più alto e completo di questo sia impossibile da formulare.
    Grazie Franco!

    Francesca

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  5. Adoro kafka!! Uno dei primi libri che ho letto fu lettera al padre, e anche se gli strumenti intellettuali di adolescente non mi permettevano di cogliere tutte le innumerevoli sfaccettature del conflitto ancestrale che quelle pagine gridano, tuttavia ho riconosciuto me stessa in quella lotta!! Ma oggi cerco la felicità dietro quella fessura che si apre invitante nel muro della mia cella!

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