sabato 30 ottobre 2010

Acme emergency!


Domattina dovrei andare in palestra.
Ma dovrei anche scrivere la recensione su "Divorzio a Buda" di Marai. E studiare Piazzolla, il mio solito Sevcik e un'anticchia di Strauss. Solo allora potrei permettermi di preparare le lasagne.
E forse godermi una puntata di "Paint your life".
Perchè potrò anche essere un'intellettuale, ma sono anche una persona normale, almeno di tanto in tanto!
Per il resto della lista maledetta dovrò aspettare lunedì: pc ancora malato (lo sapevo che sarebbe andata a finire così!), cappotto da portare in tintoria, una mole di panni da stirare.
E la chiamano vita d'artista!
In certi giorni mi sembra solo di essere Willy il Coyote!
Aaaaarghhhhhhh!!!
Buonanotte

Francesca

Sorprese


Ieri sera ho avuto la conferma che si può essere bionde ed essere comunque riconosciute persone intelligenti e di talento.
Forse non accade spesso.
Ma accade.
Anche una sola volta nella vita è sufficiente a trovare un senso universale.

Grazie.
Francesca

venerdì 29 ottobre 2010

Recensione giapponese sul cd "Tentaciòn Tango"




[JAZZ CD] HIJOS ILEGITIMOS DE ASTOR Tentacion TAngo

È un nome molto raro per un gruppo e già godono di una notevole attenzione in Europa oggi. Figura centrale nella composizione e responsabile degli arrangiamenti è Alejandro Fasanini e al momento lo possiamo definire come il più importante musicista di tango del nostro tempo, invero come il successore di Astor PiazzollaQuesta è l’orchestra di Tango del nuovo secolo. Una serie di capolavori, questo album è la vera evoluzione del Tango. Bandoneon, violino, viola, violoncello squisitamente si intrecciano con la bella voce di Valeria Visconti. Una insolita percussione all'adozione del tango, l'aspetto del ritmo è assolutamente originale.


[JAZZ CD] HIJOS ILEGITIMOS DE ASTOR/
TENTACION TANGO

あまり耳慣れないグループ名ですが、目下ヨーロッパで目覚しい注目を集めているのが彼らです。中心人物で作曲、アレンジを担当するアレハンドロ・ファサニーニは現代最重要のタンゴ音楽家として知られており、アストル・ピアソラの後継者とも呼ばれています。彼は今世紀に入り’タンゴ・オクテット’というバンドでの演奏に力を入れ、数多くの力作を世に放っていますが、このアルバムはその発展形である’テントラシオン・タンゴ’による1枚。バンドネオンとバイオリン、ビオラ、チェロ等が絶妙に絡み合い、そこにバレリア・ビスコンティの美しい歌声がフィーチャーされます。タンゴには珍しいドラムスの採用で、リズム面が強化されています



Alejandro Fasanini,   Compositore e direttore
Daniela Ferrati,   Pianoforte
Francesca Giordanino,  Violino
Aurelio Venanzi,   Viola
Andrea Agostinelli,   Violoncello
Giampaolo Ravaglia,   Contrabbasso
Gianluca Costantini,   Bandoneon
Riccardo Bertozzini,   Chitarra
Ivan Gambini,   Percussioni
Valeria Visconti,   Voce






Al mio amico Vincent


Autoritratto con orecchio bendato - gennaio 1889

Più di qualche volta durante la giornata mi capita di pensare quanto sia strano il mondo.  E quanto ancor più strani siano i suoi abitanti, ivi compresa me.
Ieri sono incappata per combinazione nella mostra di Van Gogh a Palazzo Venezia: reduce da un incontro di lavoro dietro i fori imperiali e con il pomeriggio libero mi sono detta "Perchè no?". E passetto passetto sono entrata nel mondo di Vincent e della sua bizzarra genialità. Certo a dire il vero la mostra non vale un granchè: è piccolissima, costa uno sproposito (12 euro per nemmeno un'ora di visita più 7 euro per gli auricolari di "coppia"!) e non ha nemmeno un pezzo di quelli davvero importanti, a parte qualche caso isolato: un quadro sui cipressi e un paio di indimenticabili autoritratti. Per mia fortuna avevo già visto tutto quello che si poteva vedere ad Amsterdam per cui ieri mattina più che nutrirmi delle opere di Van Gogh ho fatto quello che potrei definire come un viaggio evocativo nella sua memoria di artista e di uomo sofferente, emarginato, povero e solo. E' stata un'emozione reale vedere incorniciate pagine delle sue lettere a Theo che negli ultimi due anni ho letto e riletto decine di volte, lettere in cui lui scrive del suo disagio, della sua gioia, del suo amore per la pittura, per gli amici, per un Gaugain che forse badava troppo a se stesso per accorgersi dell'anima sottile di Vincent e della sua estrema fragilità.
Conosco Vincent in realtà come se fossi stata io stessa la custode del suo spirito, conosco i suoi eccessi e i suoi voli perchè sono gli stessi che appartengono a me. Partecipo della sua visione del mondo perchè ne condivido appieno l'etica, il baricentro spirituale. E ciò che mi ha maggiormente infastidito della mostra romana è stato probabilmente il commento superfluo e superficiale della guida audio, che blaterava una serie di inutili informazioni sugli spostamenti del pittore da una città all'altra senza centrare la poetica e la visione dell'arte che era alla base dell'urgenza che conduceva Vincent sulla tela, pur respinto dalla società come uomo e come artista. Inoltre non si fa minimo cenno al fatto che fu proprio tale forzato isolamento che lo costrinse alla follìa, aiutato in grande misura dalle difficoltà economiche perenni che lo costringevano a sentirsi un peso non solo per il fratello ma in qualche modo per l'intera umanità.
Vincent è l'esempio di come - in determinate condizioni di vita - la ciclotimia non perdoni, non conceda tregua al "male" che si espande nel cuore come una marea improvvisa, una tenebra sottile e silenziosa che tutto ingoia senza possibiltà alcuna di redenzione.
Eppure nei momenti di calma, lucidità ed euforia un uomo così malato e così disperato sapeva umilmente accostarsi ai colori e produrre un quadro come  "I mangiatori di patate",


o come la "Chiesa di Auvers sur Oise".



E proprio osservando quest'ultima tela viene da riflettere sul fatto che in fondo Vincent - prima di intraprendere la strada dell'arte -  voleva solo fare il pastore, come suo padre. Nel 1877 scrive a Theo : " Mi sento attratto dalla religione e desidero consolare gli umili. Penso che il mestiere di pittore e di artista sia bello, ma credo che il mestiere di mio padre sia più sacro." E gli riuscì, in effetti, di raggiungere il suo scopo, anche se per un breve periodo. Ma l'istituzione ecclesiastica, spaventata dal suo apostolato eccessivamente zelante (viaggia a piedi nudi per chilometri, dà tutto ciò che possiede ai poveri, dorme in una baracca con solo un pagliericcio all'interno) non gli rinnova l'incarico precedentemente affidatogli. Vincent aveva l'animo di un novello S. Francesco, voleva dare al prossimo ciò che egli per primo non aveva ricevuto. Questo sarebbe bastato a fare di lui - se non un uomo equilibrato - almeno un uomo felice. Ma come in tutte le vicende umane, la storia non si fa con i "se".
E nel 1880, privato della sua prima vocazione, si iscrive all'Accademia delle Belle Arti di Bruxelles. Ha 27 anni. E sulle sue spalle già grava una pesante serie di insuccessi:  il rifiuto da parte della  donna che amava perchè già promessa ad un altro uomo nel '74, il licenziamento come mercante d'arte nel '76 e infine l'allontanamento forzato dalla sua missione di apostolato nel '79 . A questo si aggiunge la pesante e continua indigenza in cui trascina la sua vita da sempre. Eppure in lui sopravvive una forza, una luce, quella speranza atavica a cui si aggrappano coloro che pur perduti nella nebbia sanno che prima o dopo ritroveranno la strada. "Come quello che si è rotolato come se fosse sballottato da un mare tempestoso arriva infine a destinazione, così quello che è sembrato buono a niente, e incapace di ricoprire un posto o una funzione, finisce per trovarne una e, attivo e capace di azione, si dimostra completamente diverso da quello che era sembrato a prima vista" (Lettera a Theo, luglio 1880).
In qualche modo per lui la pittura diventa un nuovo viatico per giungere al cuore degli uomini: sulla tela gli è concessa la libertà di riprendere quel cammino interrotto dal fato, dall'altrui incapacità di riconoscere il valore, di considerare il coraggio dell'onestà  una  forma pericolosa e strisciante di insurrezione.  E Vincent - scegliendo comunque se stesso a proprio discapito - continuerà nei restanti 10 anni della sua vita a percorrere quella strada, solo.
L'unico momento di vera gioia lo conoscerà nell'autunno dell'88 quando Gauguin - dopo un'accurata trattativa da parte del fratello Theo - si trasferisce ad Arles a vivere insieme a lui, in quella che diventerà la famosa "casa gialla".

La casa gialla - Arles 1888

Il proposito di Vincent era quello di fondare una comunità di pittori ad Arles, una fucina di intellettuali che dessero nuova spinta all'evoluzione artistica attraverso il confronto diretto e una onesta collaborazione. Un modo per uscire da quell'utero di solitudine estrema in cui la vita lo aveva da sempre ricacciato. "Ora, se io fondo uno studio-asilo all'ingresso del sud, non è una cosa tanto idiota. E proprio in questo modo possiamo lavorare serenamente. Se gli altri diranno che è troppo lontano da Parigi, ebbene lasciali dire, tanto peggio per loro. Perchè il più grande colorista di tutti, Eugène Delacroix, ha creduto indispensabile andare nel sud e fino all'Africa? (...) E tutti i veri coloristi dovranno arrivare a questo, ad ammettere cioè che esiste un altro colore, diverso da quello del nord." (Lettera a Theo, Arles 18 settembre 1888).
L'esperimento di convivenza però - nemmeno a dirlo - fallisce miseramente. Paul Gaugain, attirato ad Arles dalla prospettiva di raccogliere denaro attraverso la vendita dei propri quadri per poi trasferirsi in Martinica, rimane totalmente deluso dalla città che giudica "il luogo più sporco del Mezzogiorno". Non riesce ad entrare nell'ottica di Van Gogh sia da un punto di vista artistico che umano ed è infastidito dalle disordinate abitudini di Vincent e dalla sua incapacità di gestire il denaro in comune. Vincent sa che Gauguin partirà presto, lo avverte con sempre maggiore lucidità e ciò fa scattare in lui un misto tra rabbia e rassegnazione. Il 23 dicembre scrive al fratello : "Credo che Gauguin si sia un po' scoraggiato della piccola città di Arles, della piccola casa gialla nella quale lavoriamo, e soprattutto di me. Infatti ci sono per lui, come per me, molte difficoltà gravi da vincere. Ma queste difficoltà sono soprattutto in noi. Insomma credo che partirà decisamente oppure resterà definitivamente. Prima di agire gli ho detto di riflettere e di rifare i suoi calcoli. Gauguin è molto forte, è un grande creatore, ma proprio per questo gli occorre la pace. La troverà altrove se non la trova qui? Aspetto che prenda la sua decisione in assoluta serenità."
Al contrario di quanto dichiarato a Theo, Vincent non è affatto sereno e quella sera stessa - secondo una versione fornita da Gauguin - tenta di aggredire il collega con un rasoio. Sconvolto ed impaurito Gauguin decide di lasciare la casa gialla e dorme in albergo. Van Gogh rimasto solo per l'ennesima volta, ubriaco e in preda all'angoscia per il proprio operato, si recide il lobo dell'orecchio sinistro e lo fa recapitare a Gauguin avvolto in un foglio di giornale. Alfine gli era rimasta solo l'auto-mutilazione per chiedere scusa al mondo di esistere, per essere perdonato del sopravvivere del suo dolore che tutto spazzava via, quel tormento insaziabile che recideva ogni legame e lo abbandonava nel vuoto. Gauguin avverte il fratello Theo e parte immediatamente, lasciando Vincent a combattere per 3 giorni sospeso tra la vita e la morte. Eppure ancora una volta la presenza umana di suo fratello giunto di corsa da Parigi lo salverà, quella fiammella di calore e di affetto riusciranno a trattenerlo ancora in vita, pur ricacciandolo nell'oscurità del suo male.
Nel marzo del 1889 una petizione firmata da 80 cittadini chiede l'allontanamento del pittore da Arles.  A tal proposito egli scrive :"L'artista è, alla fine, un uomo che lavora e non è il primo babbeo venuto che può sconfiggerlo... Sogno di accettare con fermezza il mio mestiere di pazzo così come Degas ha preso l'aspetto di un notaio".
Ma è il matrimonio del fratello nell'aprile del 1889 e la nevrosi che ad esso segue a distruggere ogni suo tentativo ulteriore di lotta. L'8 maggio si arrende all'evidenza del suo stato e si fa ricoverare spontaneamente nella casa di cura di Saint-Paul-de-Manson, presso Saint-Rèmy-de-Provance, dove resterà fino al gennaio del 1890. 


La ronda dei prigionieri - 1890

Vincent sa di aver perduto. Sa che il successo in cui tanto aveva sperato e creduto sino allo sfinimento non arriverà mai e con esso non arriverà mai l'accettazione da parte del mondo nei riguardi del suo sentire, del suo stesso essere uomo così connaturato al suo male e alla sua arte. Egli sa di essere alla fine della sua lunga guerra. Scrive al suo amico e pittore Bernard : "Per tutto l'anno ho pasticciato dal vero, senza pensare all'impressionismo, nè a questo nè a quello. Ancora una volta però mi lascio andare ad acchiappare delle stelle troppo grandi e - nuovo fallimento - ne ho abbastanza" (20 novembre 1889).
  
       Ah, caro Vincent, quali sono le stelle troppo lontane? Son forse queste?


Notte stellata - giugno 1889


Eppure la tua arte te le rende così vicine, talmente accessibili da neanche fartene rendere conto, non è così?
Sei arrivato al punto in cui il tuo male ti rende cieco e insonne mentre la tua coscienza "dorme" la realtà, perchè lo spirito non è più in grado di ricevere ulteriori schiaffi ed umiliazioni. Allora precipiti nel nulla da cui proviene il tuo tutto ed in esso ottundi i sensi che ti sono nemici. Caro Vincent, sarebbe bastata una mano amica, una sola, per risollevare ancora una volta la tua speranza ed indurla a credere che forse un giorno il mondo ti avrebbe dato anche solo una misera parte di ciò che meritavi! Ma quella mano mai giunse. E tu scrivevi ancora affondato nel forzato oblìo di Saint-Rèmy: "L'ambiente qui comincia a pesarmi più di quanto possa dirti - in fede mia ho pazientato più di un anno - ho bisogno di aria, mi sento rovinato dalla noia e dal dolore. E poi il lavoro urge, qui perderei tempo. Perchè dunque, ti chiedo, hai paura di incidenti - non è questo che deve spaventarti, in fede mia da quando sono qui ne vedo cadere o dar fuori di senno ogni giorno. Quello che è più importante è cercare di limitare la disgrazia. Ti assicuro che è già qualcosa essersi rassegnati a vivere sotto sorveglianza, anche se questa è simpatica, e a sacrificare la propria libertà, e a tenersi fuori dalla società, e a non avere che lavoro senza distrazioni. Tutto ciò mi ha scavato rughe che non si cancelleranno. (...)  La mia pazienza è al limite, mio caro fratello, non ne posso più, bisogna cambiare, anche in peggio." (29 aprile 1990).
E così sarà.
Uscito dal manicomio Vincent si trasferisce ad Auvers-sur-Oise dove di lui si occupa il dottor Gachet e conducendo una vita semplice riesce a produrre circa 80 tele in poco più di due mesi. Ma la sua psiche è allo stremo delle forze. Nel luglio viene a sapere non solo che Theo non si unirà a lui per le vacanze estive ma che pure Gauguin ha rifiutato il suo invito.
L'ombra della solitudine estrema avanza su di lui.
Il 27 luglio rientra a casa dai campi dove si recava quotidianamente a dipingere e dichiara ad una coppia di coniugi suoi vicini di essersi sparato. Accorre dapprima il dottor Gachet e poi Theo a cui Vincent dirà: "L'ho fatto per il bene di tutti, ho mancato il colpo ancora una volta". Morirà 3 giorni dopo, il 30 luglio 1990 e a soli 6 mesi di distanza si spegnerà anche il fratello Theo, colpito inesorabilmente al cuore dalla tristezza per la fine di Vincent.


Campo di grano con corvi - 1890


"Più di qualche volta durante la giornata mi capita di pensare quanto sia strano il mondo. E quanto ancor più strani siano i suoi abitanti, ivi compresa me."
E' proprio così. Il mondo è strano, per non dire crudele. Lo definiamo bizzarro per non sottometterci all'evidenza della sua parzialità, della sua mediocre capacità di scegliere chi far vivere e chi morire.
Di tanto in tanto immagino quanto vorrei possedere un quadro di Vincent per poter piangere davanti ad esso ogni giorno. Questo sarebbe un infinitesimale prezzo che io - in quanto rappresentante dell'umanità - sento di dover pagare per espiare l'ignobile colpa di aver tradito e soffocato l'anima pura ed esposta di un artista siffatto. Ogni giorno vorrei poter piangere innanzi ai suoi colori, all'astrazione delle sue forme per fargli giungere - ovunque egli sia - una piccola rata del suo credito verso la vita.  
Oggi un suo dipinto vale milioni di euro e lui è morto povero, solo, schiacciato dal peso della sua inutilità, ucciso dal suo senso di colpa verso un mondo che lo aveva rifiutato, lo aveva reso un reietto, un "pazzo" da cui l'umanità si arrogava il diritto di fuggire per mettere al riparo la propria immonda moralità, il proprio sordido commercio di anime.
Ma in ogni caso la speranza e la luce dell'artista permangono, rivivono attraverso gli occhi di coloro che si posano, ammirati, sopra le sue opere e riconducono lo spirito verso sentieri migliori di quelli toccati in sorte all'infausto sognatore. Egli stesso ebbe un giorno la medesima speranza e almeno in questa noi non lo abbiamo tradito:
"Sento il bisogno di produrre fino ad esserne schiacciato moralmente e vuotato fisicamente, proprio perchè non ho nessun altro mezzo per equilibrare le nostre spese.
Non posso farci niente se i miei quadri non si vendono.
Ma verrà il giorno in cui si vedrà che valgono di più del prezzo del colore e della vita, anche se molto misera, che ci sto rimettendo."
Amen





giovedì 28 ottobre 2010

Inverno ad oltranza


Ogni tanto mi incazzo. So che non dovrei: il bagaglio di esperienza alle spalle mi ha insegnato quanto sia inutile e controproducente.
Eppure ancora mi incazzo quando mi dò da fare per un progetto comune e nessuno me ne riconosce il merito.
Mi incazzo quando constato che la gente è sempre e solo disposta a prendere senza dare nulla.
Mi incazzo quando la stessa gente si stupisce che tu dia senza pretendere nulla in cambio, se non un "grazie", se non una parola gentile quasi doverosa in certe situazioni.
Mi incazzo quando i valori base dell'educazione vengono dimenticati a favore di non si sa bene quali alternativi indirizzi morali.
Mi incazzo quando la propria professionalità e serietà vengono messe in dubbio da persone di incerto valore, quando non viene mai resa giustizia a chi arriva in orario contro chi arriva in ritardo, a chi fa il proprio dovere e si vede penalizzare costantemente da una mandria di buffoni incompetenti e senza riguardo per il tempo e il lavoro altrui.
Mi incazzo. E mi attacco alla riserva di Malox o mi preparo una camomilla.
Ma a poco serve. In certi momenti bisognerebbe vivere con una flebo di Prozac da mani a sera infilata in vena per riuscire a tirare avanti. Oppure optare per una sana lobotomia, in modo da essere del tutto intoccati dall'altrui bassezza.
Una soluzione drastica stile "Qualcuno volò sul nido del cuculo".
Ma - ahimè - ancora non mi hanno ricoverato in un centro psichiatrico e non sono nemmeno in lista per sottopormi ad una simile balsamica operazione.
Quindi continuerò ad andare a letto incazzata e svegliarmi incazzata, inutilmente.
Sapendo perfettamente che chi dovrebbe passare notti insonni roso dalla propria incapacità o egoismo dorme i sonni migliori dell'universo.
E allora cosa mi rimane da fare?
Aspettare. Come i cinesi. Aspettare sulla riva paziente in attesa che qualcosa accada, che il vento cambi come in "Chocolat", che la furia dal nord si plachi e cominci a spirare una deliziosa brezza australe capace di sciogliere i ghiacci e placare le tempeste.
Aspetto la primavera.
I semi da piantare sono già messi da parte.

Francesca

martedì 26 ottobre 2010

A letto con Sandor


Bene. La sfida dei libri è in corso. Siamo arrivati a 3 recensioni su 12.
Stasera inizierò "Divorzio a Buda". Se tutto va bene, in un paio di giorni dovrei finirlo.
E comunque già sto pensando alla prossima lista.
Che emozione!
Certamente il primo sarà quello di Qiu Xiaolong  "La misteriosa morte della compagna Guan", scelto sotto suggerimento della cara Giulia. Poi ci sarà "L'incognita" di Hermann Broch (che temo sia fuori catalogo e non so come farò a recuperare), anch'esso inscritto sotto suggerimento di un amico prezioso e certamente il racconto di Alessio Gradogna inserito nella raccolta "Pater Noster". Altro libro che vorrei includere è quello di Vladimir Dudincev "Non si vive di solo pane", pressochè introvabile se non nelle librerie che trattano antiquariato. E se non riuscirò a metter le mani su quel russo ne cercherò un altro. Perchè la Russia di tanto in tanto deve tornare sul mio piatto, altrimenti soffro di una carenza di zuccheri sovietici!!!
Attendo comunque le vostre segnalazioni che mi saranno preziose per completare la lista dei miei prossimi dodici "amici" da leggere in 30 giorni!
Ora vi lascio.
Sandor Marai attende.

Buonanotte a tutti
Francesca

Jack London, il visionario



"Il genere umano è condannato a sprofondare sempre più nella notte primordiale prima di ridare la sua cruenta scalata alla civiltà."
La peste scarlatta

E' strano constatare come nella letteratura esistano corrispondenze a dir poco bizzarre per un occhio che la osservi attraverso il caleidoscopio del tempo. "La peste scarlatta" di Jack London - racconto apocalittico del 1912 che tratta l'estinzione della razza umana a causa di un germe trasmissibile per via aerea - presenta come primo riferimento temporale l'anno 2012 che nel breve romanzo precede l'anno di diffusione del contagio. Non posso negare che vedere scritta tale scadenza sulla carta da un autore vissuto un secolo prima di noi in qualche modo mi abbia messa in allarme. E lo ha fatto non per la banale "coincidenza" temporale, ma perchè dallo scrittore che ha partorito Il vagabondo delle stelle mi aspetto qualcosa di più che un semplice "scivolone" del caso.  
Sarebbe da sciocchi nella realtà mediatica in cui ci ritroviamo a vivere ignorare i riferimenti quasi quotidiani alla ormai prossima fine del mondo, ai vari calendari Maya, alle profezie nascoste nelle culture di ogni epoca che sembrano indicare una data di scadenza proprio nel fatidico 2012. Riguardo a questo evento è da parecchio tempo che cerco di farmi un'opinione cercando sensati riferimenti sul web, leggendo libri, scartabellando testi sacri di ogni religione per scoprire cosa in questa "favola" mediale vi sia di vero e cosa no.  E in questo balletto dai chiaroscuri indefiniti di recente sono finita ad interessarmi ad un libro di Giorgio Terzoli in cui la lettura degli eventi passati e prossimi è trattata in maniera talmente "scientifica" sulle basi di conoscenze astronomiche (ad es. la precessione degli equinozi)  e  "archeoastronomiche" (come la datazione delle piramidi della piana di Giza) da avermi inquietato non poco. Inquietato ed indotto a riflettere.
Terzoli certo affronta l'argomento in modo asettico, non vi è nulla di "letterario" nel suo modo di esporre i fatti, non vi è traccia di enfasi nei suoi discorsi, se non forse verso la chiusura del libro, in cui non viene risparmiata una dose di necessaria retorica. Ma per la maggior parte del tempo le teorie sono esposte con chiarezza e trasparenza e tra queste saltano subito all'occhio impressionanti analogie tra le culture egizie azteche e indiane riguardo all'origine e alla fine del mondo, analogie che - se fossero arbitrarie - risulterebbero comunque ben costruite e argomentate. Personalmente comunque ritengo vi sia davvero poco di inventato in quello che Terzoli dice a proposito della materia. Ed ecco come si traduce il trait d'union fra due libri, quello di Terzoli e quello di London, a prima vista così distanti fra loro: essi parlano della stessa realtà, l'uno in maniera del tutto scientifica e l'altro in modo visionario-letterario.
Jack London non era uno scrittore qualunque. Figlio illegittimo di un astrologo (e la cosa già qui pare sospetta) ebbe un'adolescenza irrequieta dalle frequentazioni poco raccomandabili. Dopo essersi mescolato a ladri e contrabbandieri opta per la vita raminga e viaggiando per l'America svolge un'interminabile lista di lavori differenti: dal cacciatore di foche al lavandaio, dall'assicuratore al cercatore d'oro. Tutta questa esperienza di vita vissuta contribuirà certamente ad arricchire il suo materiale letterario. Eppure, a mio avviso, c'è più di questo nell'ispirazione dello scrittore americano, qualcosa di più "sottile", quasi esoterico. Esiste il legame con una cultura sotterranea, un sapere nascosto che in modo simbolico egli traduce in letteratura con un linguaggio atto a sviare i sospetti, a non generare curiosità nei riguardi delle sue reali fonti di ispirazione. Ma inoltrandosi nel suo percorso formativo ed esperienziale è difficile rimanere alieni da tali sospetti. Nel 1911, ad esempio, un eminente professore dell'università di Berkeley - Alfred Kroeber - accoglie all'interno dell'università  anni prima frequentata dallo stesso London un indiano della tribù dei Yahi, l'ultimo rappresentante della sua specie. Non parla inglese,  nè spagnolo nè tantomeno un dialetto indiano conosciuto. Sarà solo attraverso l'aiuto di Edward Sapir - il massimo esperto di lingue amerinde dell'epoca - che Kroebber riuscirà a misurarsi con quest'uomo che per ben 5 anni sopravviverà fabbricando frecce e archi e suscitando la curiosità dell'intera America. Ora passiamo alle coincidenze. Sapir pubblica nel 1910 un libro intitolato "Testi della cultura Yana", una raccolta di scritti sacri della cultura amerinda di cui Ishi (tale è il nome dello sconosciuto indiano) è l'ultimo vero esponente. All'interno di questa raccolta esiste un capitolo intitolato : "Bluejay's Journey to the Land of the moon". Nel 1913 Jack London scrive un libro intitolato "The valley of the moon". E nel 1915 pubblica "Il vagabondo delle stelle", un libro incentrato sul concetto di viaggio astrale e reincarnazione in cui compare un personaggio indiano di nome Ushu, un arciere primitivo di cui il protagonista rivive le esperienze durante il primo dei suoi molti viaggi extra corporei. Continuiamo? Il professore che è fulcro della narrazione in "La peste scarlatta" insegna all'università di Berkeley.
Più che di coincidenze io parlerei di segnali e contaminazioni,  veri e propri indizi che conducono a quell'immenso e tuttora insondato bacino che è la cultura amerinda, con la sua vasta tradizione di dei creatori e dispensatori di bene e male, di magia ed esoterismo ai più alti e sconosciuti livelli.
"La peste scarlatta" dunque - a mio avviso - più che un romanzo risulta essere un celato avvertimento, un messaggio oscuro mascherato da visione, come molti dei documenti che sino a noi sono giunti e di cui non sappiamo riconoscere il significato, primo fra tutti "L'Apocalisse" di Giovanni.
Jack London - in linea con molte delle tradizioni antiche - nel suo romanzo non concepisce la fine del mondo come un'esplosione del pianeta o una punizione divina ma come un radicale cambiamento, un'estinzione che diviene sinonimo di sopravvivenza dei più forti e del precipitare verso il basso della società ormai distrutta. Gli uomini superstiti della grande epidemia si risvegliano in un mondo primitivo in cui non sono più dèi ma sono costretti a confrontarsi con la dura realtà della vita, una vita in cui il denaro e i privilegi non significano più nulla e dove la cultura giace dimenticata in virtù del dominio della barbarie e dell'aberrazione.
Non è questo, in fondo, il rischio che nel 2010 riguarda da vicino tutti noi? Non ci si sente stranamente portati a credere che in fondo una simile "fantasticheria" non sarebbe poi così inattuabile, considerato ilmondo in cui viviamo?
Allora se questo è vero, Jack London cos'era? Un narratore o un profeta sacrificato sull'altare dei segreti?
Aspetterò il 1° gennaio del 2013 per rispondere a questa domanda.

Francesca

PS: Libri citati nella recensione:
  • J. London: Il vagabondo delle stelle, ed. Adelphi
  • Edward Sapir: "Yana Text", 1910 - University of California Publications in American Archaeology and Ethnology Vol. 9, No. 1, pp. 1-235
  • Giorgio Terzoli : 2012 - L'ultimo mistero dei Maya, Minerva edizioni

domenica 24 ottobre 2010

23.23 - Volare senza ali


Stasera avrei volentieri ascoltato un po' di musica prima di infilarmi sotto le coperte.
Ma il mio pc è ancora privo di audio e ... ALT! EUREKA! MP3... Arrivoooo!!!
Salvata in corner dalla tecnologia.
Elisa ora mi culla teneramente.
E penso a quanta voglia di cantare resta imprigionata nel mio cuore, un'impossibilità che mi strugge e quasi addolora.
L'idea di non poter mettere la mia anima a disposizione di un pubblico, di non poter sentire il cuore vibrare in armonia con le stelle, beh... Un po' mi rattrista.
Penso sia uno spreco di talento.... Qualcuno diceva che se siamo soli nell'universo è uno spreco di spazio.
Avere dei doni dati dal destino e non poterli condividere con qualcuno dà un forte senso d'impotenza.
Ma poi mi inchiodo alla realtà e al mio cammino e torno a vedere in essi un percorso da seguire con devozione, senza rimpianti, cocciutamente. Un percorso che conduce sempre più in alto, ogni singolo giorno della vita.
Quindi rimango muta e preservo le forze. Perchè questo è il mio compito per il momento. Aspettare.
Aspettare e vestirmi di Luce, di sorrisi rubati alle difficoltà quotidiane, di quel potere sublime che concede di trovare il faro anche nelle tempeste più oscure.
Dunque mi troverete sempre e ancora qui, munita della mia voce che non conosce paura, di uno spirito selvaggio senza confini e di occhi che dopo aver visto l'abisso ora contemplano l'infinito.
Ancora e ancora.
Buonanotte a tutte le anime trasparenti che mai hanno smesso di credere nella forza del domani.

Francesca

PS: Posto qui di seguito il testo della meravigliosa canzone di Vinicio Capossela "Modì". Chi ne ha la possibilità la ascolti. La dedico a tutti gli amanti perduti, avuti, dimenticati e tenuti stretti pur una sola notte.


Si adagia la sera
su tetti e lampioni
e sui vetri appannati dei bar
e il freddo ci mangia
la mente e le mani
e il colore dell'ambra dov'è?
Ripensa alla luce
e al sole d'Italia
che Dante d'autunno cantò

che io sto vicino a te
e tu sai perché
stai vicino a me
questa notte e domani se puoi

Ricordi via Roma
la luna rideva
lì ti ho scelto e voluto per me
mi guardavi e parlavi
dei volti tuoi strani
degli occhi a cui hai tolto l'età
e ora si scioglie la sera
nei pernod, nei caffè
nei ricordi che abbiamo di noi
per amore tradivi
per esister morivi
per trovarmi fuggivi fin qua
perché Livorno dà gloria
soltanto all'esilio
e ai morti la celebrità

ma io sto vicino a te
in silenzio accanto a te
stai vicino a me
questa notte e domani se puoi

Questa notte e altre notti
verranno anche se
non sentiremo ancora cantar
ascolteremo la pioggia
bagnarci i colori
e mischiare i miei pensieri nei tuoi
ormai è l'alba e ho paura
di stare a restare
da sola a scordarmi di noi

e allora sto
vicino a te
anche se non vedi che
io son qui vicino a te
questa notte e domani
sarò...

Luce al di là di ogni tenebra


"Ci sarà un giorno in cui il coraggio degli uomini cederà, in cui abbandoneremo gli amici  e spezzeremo ogni legame di fratellanza, ma non è questo il giorno!!! Ci sarà l’ora dei lupi  e degli scudi frantumati, quando l’era degli uomini arriverà al crollo, ma non è questo il giorno! Quest’oggi combattiamo. Per tutto ciò che ritenete caro su questa bella terra vi invito a resistere!!!"
The Lord of the Rings


Non avrei mai saputo dirlo meglio!
Buona domenica a tutti
Francesca

sabato 23 ottobre 2010

Kafla l'oscuro



E' sera. Una sera qualunque su questa terra che sa essere madre e meretrice allo stesso tempo.
Una mosca volteggia lentamente tra le pieghe della mia stanza.
Non ho fretta di cacciarla. Solo fastidio, di tanto in tanto, se osa avvicinarsi alla pelle. Ma forse - la mia -  è solo pigrizia: in fondo se avessi più fermezza la ucciderei, porrei fine al suo tormentoso ronzìo e mi sentirei liberata, in pace.
Nel silenzio rivoltato come un guanto logoro mi soffermo sulle pagine dell'odiato e amato "Castello" di Kafka.
Peso e tormento. Inevitabilità. Giudizio.
E mi trovo a discordare con l'ipotesi dell'illustre Citati che vede nel Castello un'immagine di Dio, irraggiungibile, sicura, immota.
Il Castello per Kafka è l'utopia del dominio del sè, la conoscenza assoluta del proprio essere da cui deriva il controllo sulla propria vita, sul proprio destino. E nel romanzo K., il protagonista, non sarà mai messo in condizione di giungere a destinazione  poichè l'autore stesso sa che una simile possibilità gli sarà sempre negata. E ciò che è peggio, in realtà egli - in qualità di scrittore - non desidera affatto  accedervi poichè teme di perdere ciò che ha di più caro, ovvero quell'eccesso di agonizzante follia che - costretta dalla lucida ragione ad essere recintata e ammansita come una mandria furente - conduce alla letteratura.  "Questa discesa alle potenze oscure, questo scatenamento di spiriti legati per natura, i problematici amplessi e tutto quanto può avvenire laggiù, di cui qua sopra non si sa mai nulla quando si scrivono racconti alla luce del sole. Forse esiste anche qualche altro modo di scrivere, ma io conosco soltanto questo."
Leggere questo romanzo è come addentrarsi nella coscienza di un uomo totalmente accecato dal proprio limite eppure di esso talmente conscio da averlo quasi digerito ed espiato attraverso la sofferenza e la sua vacuità. Il Castello è dunque un libro che - a parte angoscia febbrile ed un incolmabile senso di vuoto - non lascia nulla dietro di sè, perchè questo era ciò che Kafka esattamente desiderava. Ciò che perdura nell'animo è solo un senso di vana pietà per la tragica inconcludenza della condizione umana, per l'inutile assurdità del combattere a favore di uno scopo. E' un testo - a mio modesto avviso - che non mette in moto alcun proposito, non lascia sedimenti contenutistici ma scolpisce nell'anima un sentore vago di dissolvimento e morte, una morte che giunge costantemente circondata da un alone di noncuranza e inevitabilità.
E' un libro senza alcuna via di fuga, che non lascia scampo.
Certamente qui Kafka si spinge molto più in là rispetto al Processo, si avventura ancora più smodatamente nel mondo dell'assurdo in un modo tanto più doloroso da parere al lettore quasi insopportabile. Pagina dopo pagina si scivola nell'accettazione dell'irrisolutezza, del fallimento, quasi senza accorgersene, senza nemmeno più ascoltare quell'innato senso di giustizia che interiormente continua a far giungere il proprio disappunto. E infine non si riesce più a provare rabbia per l'esclusione da parte del protagonista K. dalla comprensione di qualsiasi meccanismo esterno concernente il suo andirivieni nel mondo, il suo vano lottare per obiettivi di volta in volta sempre più modesti. Costernazione e impulso alla fuga  sono gli unici barlumi di reazione sensata che la mente riesce ancora a produrre benchè stordita dalle contraddizioni, dalla drammaticità del non-senso, dalle voragini prodotte dal sadismo burocratico in cui K. si ritrova a naufragare.
E' una vertigine che provoca paralisi.
E la paralisi riesce anche a soffocare l'ultimo istinto salvifico che vede nella partenza del protagonista l'estrema possibilità di redenzione. K. stesso non può più contemplare questa ipotesi, talmente è ormai vittima del sistema; e noi con lui.
Nessuno lo trattiene, nessuno lo ha accusato o imprigionato (come avvenne per il K. de Il Processo).
Egli imprigiona se stesso, l'ego di K. è la sua medesima condanna. Questo è il modulo letterario che Kafka utilizza per dire a se stesso e a noi tutti che ciascuno è prigioniero di sè prima ancora che di tutto ciò che gli gravita intorno, è prigioniero del proprio limite prima ancora che del Castello.
E' un libro difficile, questo. Un libro che fa sudare ad ogni riga, ad ogni pagina.
Un libro ostico che parla dell'incubo attraverso immagini miti e un linguaggio semplice.
A coloro che non avessero tempo e pazienza bastevoli per avventurarsi nella lettura dell'intero romanzo consiglio vivamente di gustarsi il solo capitolo 11° intitolato "Nella scuola" che oltre ad emanare un fascino letterario molto intenso, riassume in breve il senso di ogni argomento trattato nel Castello. A me ha dato come l'impressione di essere il racconto di un incubo per molte persone assai ricorrente: quello di svegliarsi in pigiama in un luogo pubblico e da tutti i presenti essere derisi e scherniti  a causa del proprio imbarazzo e divenire infine vittima di pubblico rimprovero poichè - per via dell'evidente disagio -  si sta disattendendo al proprio lavoro. Il paradosso celato dietro questo splendido racconto nel racconto potrà dare un'idea dell'amarezza e della solitudine estrema che vive il protagonista nel corso dell'intera sua vicenda, un'amarezza derivante dall'impossibilità sempre più evidente di avere il benchè minimo contatto con il potere, con l'ombra celata dietro le tendine che decide il destino della vita a nostra insaputa.
Per quanto possa sembrare ardimentoso - e so che probabilmente questa ipotesi verrà additata come falsa e tendenziosa - io vedo nell'immagine che Kafka costruisce del potere la capacità logica e razionale dell'uomo di badare a se stesso, di vincere i propri demoni, di costruire la propria vita con cognizione di causa, al di là del merito e dell'etica personale. Ciascuno ubbidisce in qualche modo al proprio "potere" interiore: in alcuni questo potere ha connotati vincenti e superiori per nascita, in altri ha il volto del "self made man" che lottando arriva a destinazione, in altri è del tutto assente come nel suo caso.
Non a caso Citati scrive : "Se Tolstoj cercò per tutta la vita di scoprire cosa racchiudesse il tesoro invisibile e segreto della felicità, Kafka non sopportava la felicità: temeva che la gioia di vivere lo rendesse disattento alla voce del destino. Il suo obbligo era di ascoltare l'angoscia e la disperazione, e di andare fin dove esse lo consigliavano".
Vi lascio in ultima battuta con le parole di Kafka stesso: "Tutto è fantasia: la famiglia, l'ufficio, gli amici, la strada; tutto fantasia, più lontana o più vicina, la donna; ma la verità più prossima è solo che tu premi la testa contro il muro di una cella senza finestre e senza porte."

Francesca

PS: Consiglio vivamente due testi sulla vita di Kafka molto affascinanti. Il primo è "Kafka" di Pietro Citati, ed. Adelphi; il secondo è "Conversazioni con Kafka" di Gustav Janouch, ed Adelphi.

venerdì 22 ottobre 2010

Chez Giordy

Cari tutti,
mi sono costretta a mettermi al pc per il resoconto della cena nonostante avrei volentieri glissato data la soddisfazione e la relativa sensazione di pienezza che ne deriva e mi sarei messa orizzontale munita di copertina di Winny the Pooh! Ma ogni promessa è debito quindi.... Eccovi la prima immagine della serata:



Trattasi di risotto con salsiccia e taleggio.
Ecco ingredienti e procedura per questa assoluta delizia per il palato:

Dosi per 2 persone (piuttosto abbondanti direi, non certo da Nouvelle Cuisine!):
  • Riso parboiled    gr 200
  • Salsiccia             gr 150
  • Taleggio             gr 80
  • Burro
  • 1 Scalogno
  • Vino rosso   mezzo bicchiere
  • Parmigiano
  • Brodo di pollo (io ho usato il granulare)


Far soffriggere lo scalogno nel burro e versare il riso. Farlo tostare e aggiungere brodo caldo per portare avanti la cottura. Attenzione a non far attaccare il riso alla padella altrimenti rischierà di avere un retrogusto amaro! Nel frattempo mettere una noce di burro (ne basta pochissimo) in un pentolino, versarvi la salsiccia spellata e farla dorare per 2 minuti. Aggiungere il vino rosso e far evaporare l'alcool. Spegnere la salsiccia. Quando vi sembra che la cottura del riso sia a buon punto aggiungere prima la salsiccia, amalgamare per bene e poi incorporare il taleggio tagliato a piccoli pezzi. Portare in cottura il tutto aggiungendo il brodo necessario. ATTENZIONE! Non è necessario aggiungere sale, soprattutto se il brodo risulta ben carico e la salsiccia saporita!  Alla fine spegnere la fiamma, aggiungere a piacere burro e parmigiano, aspettare circa 3 minuti e servire.
Vi assicuro che le vostre papille gustative faranno i salti di gioia!

Per finire in bellezza ho poi servito la torta alle mandorle accompagnata con coulis al cioccolato. Ecco di che ben di Dio si tratta:




Qui la preparazione si fa più complicata. Innanzi tutto ecco cosa vi serve se volete gustarvi questa bontà:
  • 125 gr di cioccolato fondente
  • 80 gr di mandorle
  • 20 gr di cacao amaro
  • 20 grammi di cacao zuccherato
  • 3 gocce di estratto di mandorle amare
  • 5 cl di latte di cocco (io in realtà sono andata ad occhio!)
  • 1/2 cucchiaino di vaniglia liquida (io ho usato l'estratto)
  • 1/2 cucchiaino di cannella in polvere
  • 2 uova
  • 120 gr di burro ammorbidito (più una noce per la tortiera)
  • 180 gr di zucchero
  • 35 gr di farina
  • 10 cl di acqua minerale naturale
E questa è la ricetta:
  1. Portate il forno a 180°. Disponete 80 gr di mandorle su una placca con carta da forno sul fondo. Fatele dorare per 10-15 minuti, poi ritiratele e fatele raffreddare. Spezzettate 125 gr di cioccolato, scaldate circa mezzo bicchiere d'acqua e mettete il cioccolato a fondere. Mescolate sempre e tenete la fiamma bassa. Appena il cioccolato è sciolto e amalgamato con l'acqua spegnete: deve aver un colore lucido.
  2. Imburrate abbondantemente una tortiera. Lavorate 120 gr di burro con 100 gr di zucchero (questa è un'operazione che richiede un po' di pazienza!). Sbattete 2 uova con la forchetta e unitele al burro zuccherato. Servendovi della frusta incorporatevi anche 35 gr di farina. Se vedrete dei grumi non preoccupatevi: quando metterete il cioccolato per la maggior parte si scioglieranno! Quindi versate il cioccolato fuso, qualche goccia di estratto di mandorle amare e 1/2 cucchiaino di vaniglia liquida.
  3. Tritate le mandorle nel robot (ma non fatele diventare una farina: i pezzi si devono distinguere) e unitele alla pasta. Versate questa nella tortiera, livellate e fate cuocere per 30 minuti nel forno (a metà altezza!!!) a 180°. Dopodichè fate riposare la torta per 10 minuti e poi sformatela, magari capovolgendola con l'aiuto di un piatto perchè il fondo sarà sicuramente più bello a vedersi della parte superiore. In un pentolino portate a ebollizione 10 cl di acqua minerale naturale, 80 gr di zucchero, 20 gr di cacao amaro e 20 gr di cacao zuccherato.
  4. Nello stesso pentolino aggiungete 5 cl di latte di cocco, 1/2 cucchiaino di cannella, ritirate dal fuoco e lasciate intiepidire. Mettete la torta su un piatto da portata e accompagnatela con il coulis servito in una salsiera o, come ho fatto io, in un bicchiere da Martini!
Ed ora, parafrasando Julia Child vi dirò solo:
BON APPETIT!!!

Buona serata a tutti!
Francesca

Autunno


"Come d'autunno si levan le foglie
  l'una appresso dell'altra, fin che 'l ramo
vede a terra tutte le sue spoglie,
similmente il mal seme d'Adamo 
 gittansi di quel lito ad una ad una, 
 per cenni come augel per suo richiamo."


Cosa avrà a che fare Dante con la scelta di un menu?
E soprattutto, il sommo poeta avrebbe avuto motivo di infuriarsi per tale accostamento?
Beh, sono certa che se avesse avuto la possibilità di assaggiare i prodotti della mia cucina  non si sarebbe affatto risentito anzi probabilmente avrebbe osato un auto invito, magari scusandosi per l'ardita impresa con qualche bella strofa di sonetto partorita per l'occasione!
Tornando a noi...
La scelta ardua per il primo piatto di stasera è ristretta a questa lista:
  • Risotto con zucca e gorgonzola
  • Risotto con salsiccia e taleggio
  • Risotto speck e radicchio (con o senza gorgonzola)
  • Risotto con fonduta
Mi si chiederà: solo risotti???
Ebbene sì, solo risotti, almeno stasera!
E poi belli ricchi.... Già, ma siamo in autunno, la stagione delle cene sostanziose accompagnate da vino buono e dessert cioccolatosi...
E poi oggi a Roma il freddo si è fatto davvero sentire, brrrrrrrr....
Quindi bisogna scaldarsi!
E cosa c'è di meglio per raggiungere lo scopo di una cena in compagnia ed un film d'avventura su mega schermo?
Dunque raggiungiamo un compromesso serio: chi mi aiuterà a scegliere il piatto di stasera verrà invitato a cena. Che ne dite?
E se la distanza sarà d'ostacolo per l'adempimento della promessa, preparerò comunque un posto a tavola in più e brinderò alla salute del bizzarro commensale!
GRAZIEEEEEEEEE..................

Francesca

Cambio di stagione



A volte mi chiedo cosa esista di più meraviglioso che stare con il viso appoggiato ad una tavola sonora e sentire le dita scivolare con ingordigia sulla tastiera, producendo un mondo di suoni paradisiaco per le orecchie e per l'anima. E' quasi come intravedere squarci di Paradiso, una rivelazione perpetua su Verità antiche, ancestrali che noi tutti sappiamo e che solo abbiamo dimenticato. E il suono, quasi fosse un mago travestito per non farsi riconoscere, riporta alla coscienza le immagini di vite passate o future, una metempsicosi continua che fluisce dallo Spirito per lo Spirito.
Ecco, quando riesco a percepire la mia sostanza penetrare così tanto nel fulgore dell'arte sono certa che Dio esista e ovunque sia mi sorrida birichino e malizioso, quasi strizzando un occhio, compiaciuto di sè e dell'opera sua....

Francesca

Sondaggio


E' inutile. Stasera il sonno tarda a venire.
E quindi navigo su internet alla ricerca di una ricetta appetitosa per domani: dopo aver rimuginato sul risotto zucca e gorgonzola, mi sono fatta tentare da una prodigiosa ricetta di maccheroni pasticciati al forno. In breve mi sono arenata tra video di Julia Child, ricettari dell'Artusi e una versione italianeggiante del chili messicano. Che fare, dunque? Le mie papille gustative alle 00.45 non funzionano un granchè, neppure in prospettiva. Dunque chiedo aiuto.
Chiedo aiuto ai miei lettori, ebbene sì!
Ditemi, o voi che navigate in acque placide e incontrate queste pagine per errore o sbadataggine o troppo affetto nei miei riguardi (di cui vi ringrazio sommamente!!!!): che cosa devo cucinare domani?
Primo, secondo? Il dolce è già in previsione nel menu e sarà una succulenta sorpresa, golosacci!!!
Insomma. La decisione sarà messa ai voti.
Anche se saranno solo 2 - e questa è una ottimistica prospettiva direi!
Che sia il pubblico a decidere le sorti del mio banchetto!
Primo o secondo, primo o secondo, primo o secondo?
Una volta scelto questo, posterò uan serie di opzioni per l'una o l'altra categoria.
Ripeto, il dolce - SEVERAMENTE al cioccolato data la stagione- permane fuori concorso!
Fate il vostro gioco!
Goodnight....
Vi ringrazio tutti del vostro interesse e del vostro calore che arriva per intero nonostante il cyberspazio!

Francesca

giovedì 21 ottobre 2010

Parimpampù


A volte mi chiedo come si possano tenere insieme i pezzi di una vita andata storta.
Quando dopo aver provato e riprovato e riprovato ancora ti ritrovi sempre e comunque col culo per terra, a dover ricominciare daccapo, senza neanche più sapere con quali forze, con quali speranze.
Ebbene sì, lo ammetto, la mia vita assomiglia terribilmente a quella di un personaggio di Dickens (e di certo non mi riferisco al Circolo Pickwick): una lunga, funesta serie di guai a cui - non si sa bene come nè perchè - sono riuscita a sopravvivere in qualche modo.
Qualcuno direbbe che "sopravvivere" non è vivere.
A quel qualcuno ora potrei rispondere che a volte "sopravvivere" è già abbastanza.
Riuscire a tirare il fiato tra una sfiga e l'altra è già abbastanza.
Riuscire a finire un libro tra un apocalisse e l'altra, è già abbastanza.
Quindi penso che da oggi in poi smetterò di fare progetti. Sì, vivrò la mia vita come se dovesse finire domani, con la stessa spassosa follìa e - perchè no? - il medesimo coraggio.
In fondo, a ben pensarci, tutti i desideri formulati negli ultimi 20 anni sono andati in frantumi, ogni singola speranza, ogni scarsa ignobile misera fallace capacità di rimanere aggrappati a qualcosa è stata del tutto vana, inutile.
Sono andati in frantumi i miei riferimenti, ogni affetto, anche l'ombra che essi rappresentavano.
Sono finite le illusioni e i miei occhi si son dovuti ancorare alla realtà, perchè non si può far finta di vivere in un film di Hollywood pur di non vedere lo schifo che ti circonda.
Beh, certo, alle volte fa un po' male. Altre volte ancora fa solo incazzare. Altre volte ancora ti fa solo venir voglia di fare una valigia e sparire senza lasciare traccia di te ad un mondo che - si sa - neppure noterebbe la differenza.
So che chi mi sta leggendo potrebbe giudicarmi noiosamente melodrammatica.
E quanto vorrei che non si sbagliasse!
Ma la verità è un'altra. La Verità è che io sono ancora su questa terra ma davvero non riesco a capire con quale scopo. Ogni tanto penso che Dio si diverta con me, che "tiri la corda" per vedere in quale punto si spezzerà, se si spezzerà. Mi chiedo persino se avrà puntato dei soldi, su questa faccenda....
Certo, certo, l'umorismo è una via di salvezza niente male.
Non per nulla Woody Allen rimane uno dei miei registi preferiti.
Ma ci sono certi giorni in cui proprio non basta prendersi in giro.
Ci sono dei giorni in cui si vorrebbe solo prendersi sul serio ed essere felici, o rendersi almeno conto che il prezzo che si è pagato all'infelicità aveva uno scopo, che la sera prima di andare a coricarsi nel proprio letto il bilancio non fosse sempre e comunque al negativo.
Oggi è uno di quei giorni. Ma so che passerà. So già che domani mattina mi sveglierò e avrò in mente solo Brahms e Sherazade, poi forse qualche pagina de "Il Castello" e ancora tanti colori per un nuovo acquerello.
Poi forse riuscirò ad avere il tempo di guardare qualche fotogramma de "Il Signore degli Anelli" e sentirmi un po' elfo e un po' Frodo nella lotta per la Vita, e poi magari mi verrà in mente di fare una torta o dei biscotti alla cannella per dimostrare a me stessa che sono ancora viva, che non mi sono spenta, che ancora l'energia del cosmo passa sotto le mie dita sotto forma di corde, farina e pennelli.
E so già che per qualche istante - breve ma significativo - avrò l'impressione di avere ancora il cuore di una bambina di 6 anni e forse impastando uno speculoos mi metterò a cantare "Jeeg Robot d'Acciaio" o "L'incantevole Creamy" perchè in fondo i miei sogni sono ancora freschi e profumati come quelli di quell'esserino alto neppure un metro, che fuggiva lontano da casa e da tutti gli orrori leggendo una riga di Cioncionblu o ascoltando qualche nota di Lalabel.
E allora sì, domattina farò così: mi alzerò senza guardarmi allo specchio con il mio orso di peluche ancora stretto nel pugno della mano destra, tirerò su la tapparella e con il naso puntato verso il cielo aspetterò per 5 minuti l'Arca della Stella Piumata come se questi 32 anni non fossero passati invano, come se non fossero passati affatto.
E magari domattina avrò la mia buona occasione, il mio turno dorato per la felicità.

Buonanotte
Francesca
                                  

Cenere e fuoco




Oggi sono felice.
Sì, e lo sono perchè hanno tentato di distruggermi e nonostante tutto sono ancora qui.
Hanno tentato di annientare la mia volontà ed io permango, stolidamente ed eroicamente.
Sono felice perchè l'ingiustizia kafkiana in cui mi dibatto è priva di volto, è vero, ma non può niente contro la mia anima, contro la Luce dei miei pensieri, contro la Verità in cui costruisco il mio cammino, ogni giorno.
Per cui ciò che ho da dire è: se volete fermarmi, se volete farmi tacere, indurmi al silenzio o all'impotenza c'è un unico sistema a cui potete ricorrere: farmi fuori. Quindi se proprio non riuscite a tollerare la mia presenza nel mondo perchè è di troppo disturbo alle vostre miserabili vite, se è per voi come uno specchio enorme in cui vedete riflesse le vostre deformità, dovrete uccidermi. Perchè in nessun altro modo io mi fermerò, in nessun altro modo al mondo cesserò di essere quello che sono, coraggiosamente. Forse sarò costretta al silenzio, forse alla povertà e alla solitudine, ma resisterò anche a quelle.
Non sono forse giunta sino a qui?
E nello stesso modo andrò oltre, come Giobbe.
Anzi, per qualche ragione misteriosa ogni singolo colpo contro me indirizzato mi rafforza, ogni volgare accusa, ogni tentativo di olocausto mi rende migliore perchè fa precipitare il mio pensiero sempre più nelle antiche dimore dell'Essere e mi fa carpire segreti che le vostre menti sub-umane e vili neppure oserebbero sfiorare, avvinte dal terrore di essere  disgregate e disperse nel vento.
Abbiate timore dunque, voi che avete osato umiliarmi ed insultarmi, voi che avete creduto prossima la mia fine, voi che avete pensato fosse così facile sbarazzarsi di me.
Abbiate timore perchè io sono l'Araba Fenice. E ritornerò sempre nei vostri peggiori incubi a far valere le mie ragioni, a far vedere a tutti gli uomini di buona volontà dove sia la Verità e con quale nome Essa vada chiamata.
Ogni singolo giorno della mia vita.

Francesca

mercoledì 20 ottobre 2010

BOOM

Quando l'uragano Katrina passa sulla tua testa, beh,diciamo che non è facile darsi un contegno e ricomporsi per tempo. Ma alla fine sono qui, viva e vegeta, forse solo un po' ammaccata dentro e fuori.
Programmi per la giornata: divano, coperta, tv, panino col prosciutto.
Io adoro i panini al prosciutto!!!
Ah, comunico a chi contasse di venirmi a sentire il 19 dicembre a Pescara nel mio debutto canterino che il concerto è stato annullato: tagli ai fondi.
Grazie stragrazie Banda BB.
Un abbraccio

Francesca

lunedì 18 ottobre 2010

Io so cosa significa essere intelligente.

Oltre alle gambe c'è di più



A volte vorrei solo essere nata uomo.
Avere la facoltà di far sentire la mia voce, di fare in modo che la gente dia ascolto alle mie parole piuttosto che fermarsi ad un decollétée, di avere una credibilità come persona, come artista, come essere umano evoluto. E invece sono solo una FEMMINA, sono soltanto un essere da catalogo, che non ha un suo valore intrinseco perchè glielo hanno estirpato. E per avere l'opportunità di dimostrare ciò che so fare devo faticare il triplo di un maschio pure mediocre. Perchè non è credibile che una bionda sia pure brava e intelligente.
Beh, informo il MONDO che invece è così, anche se sarò tacciata di presunzione. Me ne frego. E lo faccio per rivendicare il diritto di TUTTE le donne, il diritto di essere fiere della propria bellezza che non esclude a priori il valore, il diritto di essere mogli e direttrici di qualche azienda, il diritto di essere single e senza figli a 34 anni senza sentirsi dire "Ah, certo che il mondo è proprio cambiato!", il diritto di gridare ad una società vuota che due gambe da guardare non escludono un cervello fino e una proprietà di linguaggio da fare invidia ad un pluri laureato, il diritto di indossare una minigonna senza essere giudicate ed offese, il diritto di ridere e sorridere senza per questo venire etichettate come persone vuote e povere di spirito.
Fa paura una donna bella, intelligente, capace, colta, sensibile, talentuosa, schietta e non in vendita?
Beh, non è un problema mio. Non è un problema di tutte quelle donne che in questa descrizione si identificano. E' soltanto un problema del maschio italiano medio, che si sente minacciato e messo in discussione e preferisce relegare la donna ai due soliti vecchi antitetici ruoli, quello di santa o di puttana, di madre o prostituta, perchè così è facile, così diventa semplice manipolare e togliere potere. Ma la Verità non cambia solo perchè non la si vuole riconoscere come tale. Le donne belle e capaci non diventeranno meschine e sozze solo perchè la loro realtà le vuole così: continueranno a lottare, magari vinceranno e a volte perderanno, ma sempre con una dignità intoccabile, la dignità di chi non si è mai venduto, neppure per un secondo, di chi non ha ceduto alla logica perversa del dare-avere, di chi ha perdurato pur nella melma, nel dolore e nella sconfitta.
Oggi brindo alla mia salute e alla salute di tutte coloro che come me lottano in silenzio, emarginate da un mondo maschilista e vile che teme qualità che invece dovrebbe osannare come un valore aggiunto e andare fiero e orgoglioso di quel valore ogni singolo giorno.
A tutte le donne dico: non arrendetevi mai, perchè non si può mai sapere quando spunterà il sole!
E il sole alla fine spunta sempre, anche dopo la più lunga e gelida delle notti polari.

Francesca

domenica 17 ottobre 2010

Sopra una lettura de "La straordinaria storia di Peter Schlemihl" di Chamisso



Già dalle prime pagine del "Peter Schlemihl" una sensazione fortissima mi colse: quella di aver già letto qualcosa di simile in un altro tempo, in un altro luogo. Non mi ingannavo: le prime battute del testo di Chamisso fecero riemergere dal passato riminiscenze di un altro libro da me letto in gioventù, un libro avventuroso e ironico ricco di immagini letterarie così forti da sopravvivere nella memoria a più di 2 decenni di nuove letture. Quel libro era "Il Barone di Munchausen", di Rudolf Erich Raspe. Quando andai a cercare notizie sui due autori non mi stupii quindi di scoprirli pressochè coevi (Il Barone risale al 1785 mentre lo Schlemil al 1814), figli entrambi di quello straordinario movimento culturale che prendeva vita proprio alla fine del XVIII secolo e di cui sentiamo il respiro ancora ai giorni nostri se volgiamo il capo verso nord: il romanticismo.
Del romanticismo - almeno di quello iniziale - lo Schlemihl a mio avviso accoglie tutte le principali caratteristiche: la sfera magico-fantastica che è il cardine, il motore stesso dell'intera vicenda, la sfida tra bene e male che presto diviene metafora della ricerca individuale tesa alla piena coscienza di sè, la beneamata sehnsucht ossia quello struggimento innanzi alla bellezza e all'amore che provoca quasi dolore fisico oltrechè spirituale nell'animo di chi la avverte e infine la dimensione celebrata fino allo spasimo del viandante, di colui che esiliato per propria o altrui volontà parte alla ricerca della verità, o di una verità, spesso senza trovarla, ma riconciliandosi comunque alla fine del viaggio con la propria identità, un'identità bizzarra e spesso difforme al punto da essere respinta dalla società borghese a vantaggio di una "normalità" quasi sempre solo apparente.
Peter Schlemihl all'inizio del romanzo è un viaggiatore povero a cui un uomo dallo strano aspetto e dai poteri incredibili propone un affare: una borsa d'oro dalla capienza infinita (tipo Mary Poppins, per intenderci) in cambio della sua ombra. Certo il paragone con il "Faust" di Goethe salta subito all'occhio, con una simile premessa, e considerando che lo stesso Chamisso tentò un abbozzo su quel titolo non sarebbe poi un azzardo così insensato. Tuttavia mi permetto di osservare che la differenza fondamentale  tra Faust e lo sfortunato Peter Schlemihl sta nel fatto che, se Faust conosceva perfettamente l'identità del demone che si trovava innanzi poichè da egli stesso invocato, Peter al contrario non sa con esattezza di che natura siano i prodigi compiuti dallo strano ometto che si presenta ai suoi occhi vestito impeccabilmente e compie una serie di atti soprannaturali innanzi a nobiluomini noncuranti, come avvezzi alle sue straordinarie doti. "Subito mise mano alla tasca, dalla quale vidi saltar fuori stoffa, pioli, corde, ferri, in breve tutto l'occorrente per un magnifico padiglione. I signori più giovani aiutarono a distenderlo, ed esso ricoprì l'intera superficie del tappeto.... e tuttavia nessuno ci trovava ancora niente di straordinario..."
Non esiste una dimensione di terrore, di nero mistero ma solo di curioso stupore, uno stupore quasi infantile che nulla accomuna l'eroe di Chamisso con quello che sarà il Faust di Goethe e successivamente di Thomas Mann. E quello che distingue i due protagonisti sta nella consapevolezza della colpa: Peter, quando l'uomo in grigio gli proporrà lo scambio, avrà quasi la sensazione di essersi perduto nella caverna magica di Alì Babà e l'affresco linguistico con cui viene dipinta la scena suggerisce questa impressione appieno: "Durante il breve tempo nel quale ho goduto della fortuna di trovarmi accanto a lei, ho avuto modo, mi permetta di dirlo, di osservare diverse volte con inesprimibile ammirazione la bella, bella ombra che lei, con una certa noncuranza e senza farci caso, proietta di sè al sole, quella straordinaria ombra lì ai suoi piedi. Mi perdoni la richiesta, che è certo sfacciata: ma non sarebbe per caso disposto a cedermi questa sua ombra?"
Educazione e cortesia. Leggiamo ora cosa fa dire Goethe a Mefistofele quando si presenta a Faust: "Tu ardi e supplichi di vedermi, di udire la mia voce, di affissare il mio aspetto: la potente preghiera del tuo cuore mi ha vinto: io son qui! -  Qual miserabile tremito ti coglie ora, o tu che ti stimi più che mortale? Dov'è il forte invocare dell'anima tua? (...) Dove sei tu, Faust? Tu, la cui voce mi è pur risonata fin lassù! Dov'è colui che si è animosamente avventato sino a me? Sei tu quegli? Tu che, percosso dal mio alito, tremi in ogni tua viscera; timido verme che si storce e si divincola tutto!"
Direi che la differenza si commenta da sola. Dunque Peter è un uomo sì debole che - accecato dalla prospettiva della ricchezza - non si accerta fino in fondo della dubbia natura dello strano individuo, ma è un uomo in cui non vi sono nè premeditazione nè consapevolezza. Tutt'al più la sua colpa è nell'essere tragicamente ingenuo, nel non saper dare l'effettivo valore a ciò che possiede (ossia la propria ombra) e nell'essere incapace di giudicare prontamente le persone in cui si imbatte, errore che ripeterà anche in seguito. Tuttavia pagherà assai caro il suo essere avventato e sprovveduto. Da quel momento infatti egli possiederà sì ricchezze a profusione ma subirà il destino dei reietti, di coloro che vengono additati dalla comunità come "anormali" e per questo allontanati nonostante il loro indiscusso valore umano e la loro visibile agiatezza. E' il peso del diverso che graverà sulle spalle di Schlemihl, un peso che lo renderà solo e infelice, che lo allontanerà dalla donna che ama e che lo renderà esule e ramingo. Tuttavia, nel momento del dolore estremo, nel momento in cui egli - debole - avrebbe potuto cadere in trappola dell'infame demone che con la promessa di restituirgli l'ombra e la sua vita normale intendeva strappargli l'anima, Peter Schlemihl resiste. Sceglie l'esilio e l'infelicità, sceglie l'espiazione e il dolore ma infine sceglie di liberarsi dell'odiato nemico nell'unico modo a lui concesso: negandosi un destino ancora peggiore dell'anormalità rifiutando la restituzione dell'ombra in cambio dell'eterna dannazione. Da questo punto in poi il romanzo prenderà una piega ancora più inaspettata, arricchendo il suo carattere fantastico dopo una lunga parentesi riflessiva e speculativa. Ma di questo non voglio svelar nulla, per non togliere il gusto ai probabili futuri lettori di questo straordinaria storia.
E' evidente come l'intero romanzo sia animato da una feroce critica sociale : il mondo della borghesia ne esce fatto a pezzi, dipinto come un universo di persone di successo disposte a pagare qualunque prezzo in nome della propria "normalità", foss'anche la vendita della propria anima e della propria salvezza.
Un libro tragicamente attuale, nonostante i suoi 196 anni di vita. Un testo consigliato a chiunque voglia riflettere su quanto facile sia sbagliare strada perdendo di vista la propria umanità.
Vi lascio infine con le parole di Peter Schlemihl: " Caro amico, chi, a cuor leggero, mette anche solo un piede fuori dalla retta via, viene condotto senza accorgersene su altri sentieri, che lo sospingono in basso, sempre più in basso; invano egli vede la stella polare risplendere in cielo, a lui non resta alcuna scelta, continua irresistibilmente a scendere nell'abisso, e deve sacrificarsi nella nemesi".

Buonanotte
Francesca