venerdì 29 ottobre 2010

Al mio amico Vincent


Autoritratto con orecchio bendato - gennaio 1889

Più di qualche volta durante la giornata mi capita di pensare quanto sia strano il mondo.  E quanto ancor più strani siano i suoi abitanti, ivi compresa me.
Ieri sono incappata per combinazione nella mostra di Van Gogh a Palazzo Venezia: reduce da un incontro di lavoro dietro i fori imperiali e con il pomeriggio libero mi sono detta "Perchè no?". E passetto passetto sono entrata nel mondo di Vincent e della sua bizzarra genialità. Certo a dire il vero la mostra non vale un granchè: è piccolissima, costa uno sproposito (12 euro per nemmeno un'ora di visita più 7 euro per gli auricolari di "coppia"!) e non ha nemmeno un pezzo di quelli davvero importanti, a parte qualche caso isolato: un quadro sui cipressi e un paio di indimenticabili autoritratti. Per mia fortuna avevo già visto tutto quello che si poteva vedere ad Amsterdam per cui ieri mattina più che nutrirmi delle opere di Van Gogh ho fatto quello che potrei definire come un viaggio evocativo nella sua memoria di artista e di uomo sofferente, emarginato, povero e solo. E' stata un'emozione reale vedere incorniciate pagine delle sue lettere a Theo che negli ultimi due anni ho letto e riletto decine di volte, lettere in cui lui scrive del suo disagio, della sua gioia, del suo amore per la pittura, per gli amici, per un Gaugain che forse badava troppo a se stesso per accorgersi dell'anima sottile di Vincent e della sua estrema fragilità.
Conosco Vincent in realtà come se fossi stata io stessa la custode del suo spirito, conosco i suoi eccessi e i suoi voli perchè sono gli stessi che appartengono a me. Partecipo della sua visione del mondo perchè ne condivido appieno l'etica, il baricentro spirituale. E ciò che mi ha maggiormente infastidito della mostra romana è stato probabilmente il commento superfluo e superficiale della guida audio, che blaterava una serie di inutili informazioni sugli spostamenti del pittore da una città all'altra senza centrare la poetica e la visione dell'arte che era alla base dell'urgenza che conduceva Vincent sulla tela, pur respinto dalla società come uomo e come artista. Inoltre non si fa minimo cenno al fatto che fu proprio tale forzato isolamento che lo costrinse alla follìa, aiutato in grande misura dalle difficoltà economiche perenni che lo costringevano a sentirsi un peso non solo per il fratello ma in qualche modo per l'intera umanità.
Vincent è l'esempio di come - in determinate condizioni di vita - la ciclotimia non perdoni, non conceda tregua al "male" che si espande nel cuore come una marea improvvisa, una tenebra sottile e silenziosa che tutto ingoia senza possibiltà alcuna di redenzione.
Eppure nei momenti di calma, lucidità ed euforia un uomo così malato e così disperato sapeva umilmente accostarsi ai colori e produrre un quadro come  "I mangiatori di patate",


o come la "Chiesa di Auvers sur Oise".



E proprio osservando quest'ultima tela viene da riflettere sul fatto che in fondo Vincent - prima di intraprendere la strada dell'arte -  voleva solo fare il pastore, come suo padre. Nel 1877 scrive a Theo : " Mi sento attratto dalla religione e desidero consolare gli umili. Penso che il mestiere di pittore e di artista sia bello, ma credo che il mestiere di mio padre sia più sacro." E gli riuscì, in effetti, di raggiungere il suo scopo, anche se per un breve periodo. Ma l'istituzione ecclesiastica, spaventata dal suo apostolato eccessivamente zelante (viaggia a piedi nudi per chilometri, dà tutto ciò che possiede ai poveri, dorme in una baracca con solo un pagliericcio all'interno) non gli rinnova l'incarico precedentemente affidatogli. Vincent aveva l'animo di un novello S. Francesco, voleva dare al prossimo ciò che egli per primo non aveva ricevuto. Questo sarebbe bastato a fare di lui - se non un uomo equilibrato - almeno un uomo felice. Ma come in tutte le vicende umane, la storia non si fa con i "se".
E nel 1880, privato della sua prima vocazione, si iscrive all'Accademia delle Belle Arti di Bruxelles. Ha 27 anni. E sulle sue spalle già grava una pesante serie di insuccessi:  il rifiuto da parte della  donna che amava perchè già promessa ad un altro uomo nel '74, il licenziamento come mercante d'arte nel '76 e infine l'allontanamento forzato dalla sua missione di apostolato nel '79 . A questo si aggiunge la pesante e continua indigenza in cui trascina la sua vita da sempre. Eppure in lui sopravvive una forza, una luce, quella speranza atavica a cui si aggrappano coloro che pur perduti nella nebbia sanno che prima o dopo ritroveranno la strada. "Come quello che si è rotolato come se fosse sballottato da un mare tempestoso arriva infine a destinazione, così quello che è sembrato buono a niente, e incapace di ricoprire un posto o una funzione, finisce per trovarne una e, attivo e capace di azione, si dimostra completamente diverso da quello che era sembrato a prima vista" (Lettera a Theo, luglio 1880).
In qualche modo per lui la pittura diventa un nuovo viatico per giungere al cuore degli uomini: sulla tela gli è concessa la libertà di riprendere quel cammino interrotto dal fato, dall'altrui incapacità di riconoscere il valore, di considerare il coraggio dell'onestà  una  forma pericolosa e strisciante di insurrezione.  E Vincent - scegliendo comunque se stesso a proprio discapito - continuerà nei restanti 10 anni della sua vita a percorrere quella strada, solo.
L'unico momento di vera gioia lo conoscerà nell'autunno dell'88 quando Gauguin - dopo un'accurata trattativa da parte del fratello Theo - si trasferisce ad Arles a vivere insieme a lui, in quella che diventerà la famosa "casa gialla".

La casa gialla - Arles 1888

Il proposito di Vincent era quello di fondare una comunità di pittori ad Arles, una fucina di intellettuali che dessero nuova spinta all'evoluzione artistica attraverso il confronto diretto e una onesta collaborazione. Un modo per uscire da quell'utero di solitudine estrema in cui la vita lo aveva da sempre ricacciato. "Ora, se io fondo uno studio-asilo all'ingresso del sud, non è una cosa tanto idiota. E proprio in questo modo possiamo lavorare serenamente. Se gli altri diranno che è troppo lontano da Parigi, ebbene lasciali dire, tanto peggio per loro. Perchè il più grande colorista di tutti, Eugène Delacroix, ha creduto indispensabile andare nel sud e fino all'Africa? (...) E tutti i veri coloristi dovranno arrivare a questo, ad ammettere cioè che esiste un altro colore, diverso da quello del nord." (Lettera a Theo, Arles 18 settembre 1888).
L'esperimento di convivenza però - nemmeno a dirlo - fallisce miseramente. Paul Gaugain, attirato ad Arles dalla prospettiva di raccogliere denaro attraverso la vendita dei propri quadri per poi trasferirsi in Martinica, rimane totalmente deluso dalla città che giudica "il luogo più sporco del Mezzogiorno". Non riesce ad entrare nell'ottica di Van Gogh sia da un punto di vista artistico che umano ed è infastidito dalle disordinate abitudini di Vincent e dalla sua incapacità di gestire il denaro in comune. Vincent sa che Gauguin partirà presto, lo avverte con sempre maggiore lucidità e ciò fa scattare in lui un misto tra rabbia e rassegnazione. Il 23 dicembre scrive al fratello : "Credo che Gauguin si sia un po' scoraggiato della piccola città di Arles, della piccola casa gialla nella quale lavoriamo, e soprattutto di me. Infatti ci sono per lui, come per me, molte difficoltà gravi da vincere. Ma queste difficoltà sono soprattutto in noi. Insomma credo che partirà decisamente oppure resterà definitivamente. Prima di agire gli ho detto di riflettere e di rifare i suoi calcoli. Gauguin è molto forte, è un grande creatore, ma proprio per questo gli occorre la pace. La troverà altrove se non la trova qui? Aspetto che prenda la sua decisione in assoluta serenità."
Al contrario di quanto dichiarato a Theo, Vincent non è affatto sereno e quella sera stessa - secondo una versione fornita da Gauguin - tenta di aggredire il collega con un rasoio. Sconvolto ed impaurito Gauguin decide di lasciare la casa gialla e dorme in albergo. Van Gogh rimasto solo per l'ennesima volta, ubriaco e in preda all'angoscia per il proprio operato, si recide il lobo dell'orecchio sinistro e lo fa recapitare a Gauguin avvolto in un foglio di giornale. Alfine gli era rimasta solo l'auto-mutilazione per chiedere scusa al mondo di esistere, per essere perdonato del sopravvivere del suo dolore che tutto spazzava via, quel tormento insaziabile che recideva ogni legame e lo abbandonava nel vuoto. Gauguin avverte il fratello Theo e parte immediatamente, lasciando Vincent a combattere per 3 giorni sospeso tra la vita e la morte. Eppure ancora una volta la presenza umana di suo fratello giunto di corsa da Parigi lo salverà, quella fiammella di calore e di affetto riusciranno a trattenerlo ancora in vita, pur ricacciandolo nell'oscurità del suo male.
Nel marzo del 1889 una petizione firmata da 80 cittadini chiede l'allontanamento del pittore da Arles.  A tal proposito egli scrive :"L'artista è, alla fine, un uomo che lavora e non è il primo babbeo venuto che può sconfiggerlo... Sogno di accettare con fermezza il mio mestiere di pazzo così come Degas ha preso l'aspetto di un notaio".
Ma è il matrimonio del fratello nell'aprile del 1889 e la nevrosi che ad esso segue a distruggere ogni suo tentativo ulteriore di lotta. L'8 maggio si arrende all'evidenza del suo stato e si fa ricoverare spontaneamente nella casa di cura di Saint-Paul-de-Manson, presso Saint-Rèmy-de-Provance, dove resterà fino al gennaio del 1890. 


La ronda dei prigionieri - 1890

Vincent sa di aver perduto. Sa che il successo in cui tanto aveva sperato e creduto sino allo sfinimento non arriverà mai e con esso non arriverà mai l'accettazione da parte del mondo nei riguardi del suo sentire, del suo stesso essere uomo così connaturato al suo male e alla sua arte. Egli sa di essere alla fine della sua lunga guerra. Scrive al suo amico e pittore Bernard : "Per tutto l'anno ho pasticciato dal vero, senza pensare all'impressionismo, nè a questo nè a quello. Ancora una volta però mi lascio andare ad acchiappare delle stelle troppo grandi e - nuovo fallimento - ne ho abbastanza" (20 novembre 1889).
  
       Ah, caro Vincent, quali sono le stelle troppo lontane? Son forse queste?


Notte stellata - giugno 1889


Eppure la tua arte te le rende così vicine, talmente accessibili da neanche fartene rendere conto, non è così?
Sei arrivato al punto in cui il tuo male ti rende cieco e insonne mentre la tua coscienza "dorme" la realtà, perchè lo spirito non è più in grado di ricevere ulteriori schiaffi ed umiliazioni. Allora precipiti nel nulla da cui proviene il tuo tutto ed in esso ottundi i sensi che ti sono nemici. Caro Vincent, sarebbe bastata una mano amica, una sola, per risollevare ancora una volta la tua speranza ed indurla a credere che forse un giorno il mondo ti avrebbe dato anche solo una misera parte di ciò che meritavi! Ma quella mano mai giunse. E tu scrivevi ancora affondato nel forzato oblìo di Saint-Rèmy: "L'ambiente qui comincia a pesarmi più di quanto possa dirti - in fede mia ho pazientato più di un anno - ho bisogno di aria, mi sento rovinato dalla noia e dal dolore. E poi il lavoro urge, qui perderei tempo. Perchè dunque, ti chiedo, hai paura di incidenti - non è questo che deve spaventarti, in fede mia da quando sono qui ne vedo cadere o dar fuori di senno ogni giorno. Quello che è più importante è cercare di limitare la disgrazia. Ti assicuro che è già qualcosa essersi rassegnati a vivere sotto sorveglianza, anche se questa è simpatica, e a sacrificare la propria libertà, e a tenersi fuori dalla società, e a non avere che lavoro senza distrazioni. Tutto ciò mi ha scavato rughe che non si cancelleranno. (...)  La mia pazienza è al limite, mio caro fratello, non ne posso più, bisogna cambiare, anche in peggio." (29 aprile 1990).
E così sarà.
Uscito dal manicomio Vincent si trasferisce ad Auvers-sur-Oise dove di lui si occupa il dottor Gachet e conducendo una vita semplice riesce a produrre circa 80 tele in poco più di due mesi. Ma la sua psiche è allo stremo delle forze. Nel luglio viene a sapere non solo che Theo non si unirà a lui per le vacanze estive ma che pure Gauguin ha rifiutato il suo invito.
L'ombra della solitudine estrema avanza su di lui.
Il 27 luglio rientra a casa dai campi dove si recava quotidianamente a dipingere e dichiara ad una coppia di coniugi suoi vicini di essersi sparato. Accorre dapprima il dottor Gachet e poi Theo a cui Vincent dirà: "L'ho fatto per il bene di tutti, ho mancato il colpo ancora una volta". Morirà 3 giorni dopo, il 30 luglio 1990 e a soli 6 mesi di distanza si spegnerà anche il fratello Theo, colpito inesorabilmente al cuore dalla tristezza per la fine di Vincent.


Campo di grano con corvi - 1890


"Più di qualche volta durante la giornata mi capita di pensare quanto sia strano il mondo. E quanto ancor più strani siano i suoi abitanti, ivi compresa me."
E' proprio così. Il mondo è strano, per non dire crudele. Lo definiamo bizzarro per non sottometterci all'evidenza della sua parzialità, della sua mediocre capacità di scegliere chi far vivere e chi morire.
Di tanto in tanto immagino quanto vorrei possedere un quadro di Vincent per poter piangere davanti ad esso ogni giorno. Questo sarebbe un infinitesimale prezzo che io - in quanto rappresentante dell'umanità - sento di dover pagare per espiare l'ignobile colpa di aver tradito e soffocato l'anima pura ed esposta di un artista siffatto. Ogni giorno vorrei poter piangere innanzi ai suoi colori, all'astrazione delle sue forme per fargli giungere - ovunque egli sia - una piccola rata del suo credito verso la vita.  
Oggi un suo dipinto vale milioni di euro e lui è morto povero, solo, schiacciato dal peso della sua inutilità, ucciso dal suo senso di colpa verso un mondo che lo aveva rifiutato, lo aveva reso un reietto, un "pazzo" da cui l'umanità si arrogava il diritto di fuggire per mettere al riparo la propria immonda moralità, il proprio sordido commercio di anime.
Ma in ogni caso la speranza e la luce dell'artista permangono, rivivono attraverso gli occhi di coloro che si posano, ammirati, sopra le sue opere e riconducono lo spirito verso sentieri migliori di quelli toccati in sorte all'infausto sognatore. Egli stesso ebbe un giorno la medesima speranza e almeno in questa noi non lo abbiamo tradito:
"Sento il bisogno di produrre fino ad esserne schiacciato moralmente e vuotato fisicamente, proprio perchè non ho nessun altro mezzo per equilibrare le nostre spese.
Non posso farci niente se i miei quadri non si vendono.
Ma verrà il giorno in cui si vedrà che valgono di più del prezzo del colore e della vita, anche se molto misera, che ci sto rimettendo."
Amen





5 commenti:

  1. ...bellissima dedica al genio Vincent, Francesca cara!
    ...e che Dio ci preservi sempre dalla psicosi maniaco-depressiva e affini...

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  2. Caro Franco,
    Van Gogh è da sempre il mio pittore preferito.
    Ho parlato col cuore del suo genio perchè non potevo fare altrimenti!
    Un abbraccio
    Francesca

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  3. Sono sicuro che se lo potesse fare il tuo amico Vincent ti abbraccerebbe. Se tu avessi potuto abbracciarlo a suo tempo e fondere le vostre menti, rese pure e innocenti dall'arte, Lui non si sarebbe sentito solo. Ma quel che più conta è che Lui è stato un grande e tu da simile lo hai riconosciuto...e reso a Lui un granello del mare di gloria che avrebbe meritato.
    Ma anche un granello è un inizio di solidarietà!

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  4. Caro Pintografo,
    hai centrato il punto perfettamente!
    Grazie di cuore.
    Francesca

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  5. Nel vortice dei colori e delle pennellate che si inseguono c'è tutto il Travaglio di una vita disperata, di un sentire così estremo e totalizzante da rendere alieni. E chi, anche se in modi e forme diverse, sente la disperazione di una lotta che è cosmica, prima che personale, non puó che essere straniero in un mondo votato a disinnescare la diversità. Ci aspetta il manicomio?!? Bah..staremo a vedere! :))

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