domenica 17 ottobre 2010

Sopra una lettura de "La straordinaria storia di Peter Schlemihl" di Chamisso



Già dalle prime pagine del "Peter Schlemihl" una sensazione fortissima mi colse: quella di aver già letto qualcosa di simile in un altro tempo, in un altro luogo. Non mi ingannavo: le prime battute del testo di Chamisso fecero riemergere dal passato riminiscenze di un altro libro da me letto in gioventù, un libro avventuroso e ironico ricco di immagini letterarie così forti da sopravvivere nella memoria a più di 2 decenni di nuove letture. Quel libro era "Il Barone di Munchausen", di Rudolf Erich Raspe. Quando andai a cercare notizie sui due autori non mi stupii quindi di scoprirli pressochè coevi (Il Barone risale al 1785 mentre lo Schlemil al 1814), figli entrambi di quello straordinario movimento culturale che prendeva vita proprio alla fine del XVIII secolo e di cui sentiamo il respiro ancora ai giorni nostri se volgiamo il capo verso nord: il romanticismo.
Del romanticismo - almeno di quello iniziale - lo Schlemihl a mio avviso accoglie tutte le principali caratteristiche: la sfera magico-fantastica che è il cardine, il motore stesso dell'intera vicenda, la sfida tra bene e male che presto diviene metafora della ricerca individuale tesa alla piena coscienza di sè, la beneamata sehnsucht ossia quello struggimento innanzi alla bellezza e all'amore che provoca quasi dolore fisico oltrechè spirituale nell'animo di chi la avverte e infine la dimensione celebrata fino allo spasimo del viandante, di colui che esiliato per propria o altrui volontà parte alla ricerca della verità, o di una verità, spesso senza trovarla, ma riconciliandosi comunque alla fine del viaggio con la propria identità, un'identità bizzarra e spesso difforme al punto da essere respinta dalla società borghese a vantaggio di una "normalità" quasi sempre solo apparente.
Peter Schlemihl all'inizio del romanzo è un viaggiatore povero a cui un uomo dallo strano aspetto e dai poteri incredibili propone un affare: una borsa d'oro dalla capienza infinita (tipo Mary Poppins, per intenderci) in cambio della sua ombra. Certo il paragone con il "Faust" di Goethe salta subito all'occhio, con una simile premessa, e considerando che lo stesso Chamisso tentò un abbozzo su quel titolo non sarebbe poi un azzardo così insensato. Tuttavia mi permetto di osservare che la differenza fondamentale  tra Faust e lo sfortunato Peter Schlemihl sta nel fatto che, se Faust conosceva perfettamente l'identità del demone che si trovava innanzi poichè da egli stesso invocato, Peter al contrario non sa con esattezza di che natura siano i prodigi compiuti dallo strano ometto che si presenta ai suoi occhi vestito impeccabilmente e compie una serie di atti soprannaturali innanzi a nobiluomini noncuranti, come avvezzi alle sue straordinarie doti. "Subito mise mano alla tasca, dalla quale vidi saltar fuori stoffa, pioli, corde, ferri, in breve tutto l'occorrente per un magnifico padiglione. I signori più giovani aiutarono a distenderlo, ed esso ricoprì l'intera superficie del tappeto.... e tuttavia nessuno ci trovava ancora niente di straordinario..."
Non esiste una dimensione di terrore, di nero mistero ma solo di curioso stupore, uno stupore quasi infantile che nulla accomuna l'eroe di Chamisso con quello che sarà il Faust di Goethe e successivamente di Thomas Mann. E quello che distingue i due protagonisti sta nella consapevolezza della colpa: Peter, quando l'uomo in grigio gli proporrà lo scambio, avrà quasi la sensazione di essersi perduto nella caverna magica di Alì Babà e l'affresco linguistico con cui viene dipinta la scena suggerisce questa impressione appieno: "Durante il breve tempo nel quale ho goduto della fortuna di trovarmi accanto a lei, ho avuto modo, mi permetta di dirlo, di osservare diverse volte con inesprimibile ammirazione la bella, bella ombra che lei, con una certa noncuranza e senza farci caso, proietta di sè al sole, quella straordinaria ombra lì ai suoi piedi. Mi perdoni la richiesta, che è certo sfacciata: ma non sarebbe per caso disposto a cedermi questa sua ombra?"
Educazione e cortesia. Leggiamo ora cosa fa dire Goethe a Mefistofele quando si presenta a Faust: "Tu ardi e supplichi di vedermi, di udire la mia voce, di affissare il mio aspetto: la potente preghiera del tuo cuore mi ha vinto: io son qui! -  Qual miserabile tremito ti coglie ora, o tu che ti stimi più che mortale? Dov'è il forte invocare dell'anima tua? (...) Dove sei tu, Faust? Tu, la cui voce mi è pur risonata fin lassù! Dov'è colui che si è animosamente avventato sino a me? Sei tu quegli? Tu che, percosso dal mio alito, tremi in ogni tua viscera; timido verme che si storce e si divincola tutto!"
Direi che la differenza si commenta da sola. Dunque Peter è un uomo sì debole che - accecato dalla prospettiva della ricchezza - non si accerta fino in fondo della dubbia natura dello strano individuo, ma è un uomo in cui non vi sono nè premeditazione nè consapevolezza. Tutt'al più la sua colpa è nell'essere tragicamente ingenuo, nel non saper dare l'effettivo valore a ciò che possiede (ossia la propria ombra) e nell'essere incapace di giudicare prontamente le persone in cui si imbatte, errore che ripeterà anche in seguito. Tuttavia pagherà assai caro il suo essere avventato e sprovveduto. Da quel momento infatti egli possiederà sì ricchezze a profusione ma subirà il destino dei reietti, di coloro che vengono additati dalla comunità come "anormali" e per questo allontanati nonostante il loro indiscusso valore umano e la loro visibile agiatezza. E' il peso del diverso che graverà sulle spalle di Schlemihl, un peso che lo renderà solo e infelice, che lo allontanerà dalla donna che ama e che lo renderà esule e ramingo. Tuttavia, nel momento del dolore estremo, nel momento in cui egli - debole - avrebbe potuto cadere in trappola dell'infame demone che con la promessa di restituirgli l'ombra e la sua vita normale intendeva strappargli l'anima, Peter Schlemihl resiste. Sceglie l'esilio e l'infelicità, sceglie l'espiazione e il dolore ma infine sceglie di liberarsi dell'odiato nemico nell'unico modo a lui concesso: negandosi un destino ancora peggiore dell'anormalità rifiutando la restituzione dell'ombra in cambio dell'eterna dannazione. Da questo punto in poi il romanzo prenderà una piega ancora più inaspettata, arricchendo il suo carattere fantastico dopo una lunga parentesi riflessiva e speculativa. Ma di questo non voglio svelar nulla, per non togliere il gusto ai probabili futuri lettori di questo straordinaria storia.
E' evidente come l'intero romanzo sia animato da una feroce critica sociale : il mondo della borghesia ne esce fatto a pezzi, dipinto come un universo di persone di successo disposte a pagare qualunque prezzo in nome della propria "normalità", foss'anche la vendita della propria anima e della propria salvezza.
Un libro tragicamente attuale, nonostante i suoi 196 anni di vita. Un testo consigliato a chiunque voglia riflettere su quanto facile sia sbagliare strada perdendo di vista la propria umanità.
Vi lascio infine con le parole di Peter Schlemihl: " Caro amico, chi, a cuor leggero, mette anche solo un piede fuori dalla retta via, viene condotto senza accorgersene su altri sentieri, che lo sospingono in basso, sempre più in basso; invano egli vede la stella polare risplendere in cielo, a lui non resta alcuna scelta, continua irresistibilmente a scendere nell'abisso, e deve sacrificarsi nella nemesi".

Buonanotte
Francesca

4 commenti:

  1. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

    RispondiElimina
  2. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

    RispondiElimina
  3. Interessante l'aspetto che riguarda l'ingenuità di Peter, l'ingenuità del male e della cortesia.
    E' molto attuale.
    Il male si manifesta proprio così, sotto le spoglie dell...'ingenuità, del non riuscire a dare un valore umano a se stessi e forza alle proprie scelte.
    Meglio essere coraggiosi che ingenui.
    Credo che forse si possa essere coraggiosi e stupidi, ma ingenui e intelligenti proprio no!!
    Melgio essere normali o anormli?
    In entrambi i casi si soffre.
    Nel primo caso troviamo la banalità, della mancanza di una vita piena di effetti speciali. Nel secondo caso c'è la solitudine generata dl fatto di non potersi identificare in un gruppo.
    Peter le ha sperimentate entrambi mi pare di capire.
    Credo però che l'errore di Peter consista nel non avere riconosciuto che "ciascuno di noi è normale in quanto condivide un sistema di riferimento, anche inconsciamente, ma è anche singolare, ovvero anormale, per le peculiarità che lo caratterizzano".
    Un esempio lo possiamo trovare nell'omosessualità.
    Tullio Tommasi dice: "L'omosessualità è l'anormalità per eccellenza. Se una persona omosessuale spera nella normalità sociale avrà una vita di frustrazione, in quanto, a tutt'oggi, la nostra società è basata sulla coppia eterosessuale. Tale persona sarà destinata a vivere nell'ombra.
    L'altra possibilità è quella di assumere un atteggiamento di superbia e arroganza, per contrastare la normalità atteggiandosi a diversi che sbandierano il loro essere.
    In questo caso c'è comunque un senso di non completa accettazione di se stessi, perché una propria caratteristica diventa la ragione della propria vita (e la vita non si esaurisce nella sessualità e affettività).
    Un'altra possibilità, difficile da seguire ma sempre più frequentata, consiste nel sentirsi assolutamente normali, quasi banali.

    Bisogna riflettere sulla società e sull'idea di normalità se vogliamo salvarci.
    Compito della politica è mettere le basi affinchè i cittadini possano costruire una società migliore, e non al contrario consentire che la "banalità" del male possa annidarvisi e crescere indisturbata.
    L'istruzione e la scuola sono gli unici strumenti.
    Scusami se ho divagato !!! quanti spunti di riflessione.....lo leggerò anzi lo acquisterò subito quando torno a Roma.
    Metto tra i preferiti il tuo blog, brava!

    RispondiElimina
  4. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

    RispondiElimina