martedì 5 marzo 2013

Way out


DEDICATO ALLA CARA ANNA LISA

Prima di cambiare la mia vita, di cosa avevo paura?
Questa è una domanda la cui risposta potrebbe essere utile a tanti.
E quindi darò un'esaustiva versione del "prima" e del "dopo".

In primo luogo avevo paura del vuoto, del nulla che avrei potuto sperimentare.
Di ritrovarmi sola.
In una città senza amici.
Di essere isolata.
Di non poter lavorare.
Di avere 36 anni ed essere nella condizione economico-esistenziale di una sedicenne.
Avevo paura di fare del male ad un altro essere umano.
Mi sentivo responsabile, mi sentivo in colpa, guardavo questa persona - il mio compagno -  e pensavo: "Come posso fare una cosa del genere dopo tutto quello che lui ha fatto per me?"
Mi giudicavo, pur silenziosamente, come una donna "poco affidabile".
E quindi mi ero inchiodata da sola alla croce del "come dovrebbe essere la mia vita secondo tutti quelli a cui sento di dover rendere conto".
Recitavo un ruolo. A volte me ne dimenticavo.
Me ne dimenticavo talmente bene da "dimenticarmi" di essere quel ruolo e quasi da convincermi di essere quel personaggio immaginario di cui indossavo così magistralmente i panni.
Mentire a se stessi è un'Arte raffinata e sopraffina.
Spesso c'è chi lo fa per una intera esistenza senza mai accorgersi (o volersi accorgere) di quanto sia faticoso ogni respiro, ogni singolo battito del proprio cuore costretti in una simile condizione.

Ma guardiamo al "dopo".
Innanzitutto, cosa è successo tra il "prima" e il "dopo"?
Com'è accaduto che il "prima" sia divenuto "dopo"?
E' bastato uno sguardo. Casuale. 
Due occhi che mi restituivano l'immagine di una donna che non vedevo da tanto tempo.
E quella donna ero io.
Ero io pur senza esserlo.
Ero io DENTRO. Al di là della maschera. Al di là del "ruolo". Al di là della commedia.

In quei 10 secondi ho visto, sentito, percepito chi ero e chi facevo finta di essere.
Prima di tutto davanti a me stessa.
Da allora è cominciato un inarrestabile processo di disvelamento che mi ha condotto - la notte di Natale - a dire a qualcuno la Verità. E quel qualcuno ero Io. Non l'Altro. Ero Io.

E il "dopo"?
Riesaminiamo le paure del "prima" con occhi diversi.
La sensazione del vuoto non è stata affatto provata. Mai. Nemmeno per un secondo.
Al limite un senso di Libertà, di Amore incondizionato verso me stessa.
E di rispetto, per me e per l'altro a cui finalmente si era deciso di dire la Verità.
Al di là delle RE-azioni di chi non si aspetta una simile presa di posizione.
Non mi sono ritrovata sola. Anzi.
Devo dire che sono uscita e ho frequentato più amici in soli due mesi di vita torinese che in 6 anni di vita romana. Inutile recalcitrare: la vita sorprende sempre.
Sì, è vero: non ho un euro in tasca e non lavoro. Ma ho la libertà di "pensare" a chi sono, a cosa voglio davvero, se quella che ho intrapreso finora sia la strada che la mia anima vuole percorrere oppure no.
Insomma, il NON fare non è sempre (anzi, non lo è quasi mai) ozio. 
Il NON fare è astenersi dal fare cose che spesso si fanno senza convinzione, o senza presenza, o senza consapevolezza.
E' avere l'agio - dopo anni di sacrifici, di battaglie e di "fretta" - di pensare a ciò che si desidera davvero, non solo nella professione, ma nella propria vita.
Fin qui - direi - solo vantaggi.
Passiamo alla parte ostica: la paura di ferire e il giudizio verso di sé.
Quel tipo di paura mi ha trattenuto per mesi (per non dire anni) prima che io mi sentissi libera di fare ciò che ho fatto. Cosa mi ha reso tale libertà?
Un singolo pensiero.
"Se io non sono felice ma mi sacrifico per non far del male, cosa mi fa credere che l'altro non senta che non sono felice e che mi sto sacrificando? E se il fatto di percepire il mio sacrificio rendesse l'altro fragile e insicuro tutta la vita, lo paralizzasse, lo rendesse incapace di agire per paure non ben identificate? E se l'altro meritasse chi non si sacrifica affatto e vuole con tutto il cuore stare laddove io mi sto costringendo a stare??? In fondo - a ben guardare - se le cose stanno davvero in questo modo, io sto rubando il posto a qualcun altro. E sto per giunta uccidendo la mia Anima in nome di quello che viene normalmente chiamato "sacrificio" (come se fosse una buona cosa, poi....)."
Risolta la questione del non ferire che diventa ammazzare sé e l'altro arriva la parte peggiore: il giudizio.
Eh sì, perchè questo è un ginepraio da cui si esce davvero difficilmente.
Allora.... 
Ho 36 anni, dovrei essere capace di stare in un rapporto: la società si aspetta questo da me, gli amici si aspettano questo da me (amici, pfui....., certi "amici" che poi scopri non essere tali, ovviamente. Un amico non si aspetta mai nulla, se non che tu sia felice, in qualunque condizione), i colleghi, il vicino di casa, persino il portiere uruguayano, l'ex psicoterapeuta, i genitori (almeno nell'accezione dell'archetipo junghiano), persino il cipresso davanti casa.
Insomma tutti si aspettano che io faccia la "brava ragazza". 
Aspetta, aspetta un secondo. Ma davvero tutta questa gente si aspetta delle cose da me?
E cosa gliene dovrebbe importare? 
Non sono forse IO ad aspettarmi che loro si aspettino delle cose????
L'ego sa essere molto complicato.
Oh, insomma.... Mi dite chi si aspetta cosa e da chi, per favore?
Io. Io mi aspetto che io mi comporti in un certo modo.

Perchè? - direbbe il bambino interiore.
Perchè altrimenti gli "altri" non mi amerebbero più.
E chi sono gli altri? - direbbe di nuovo il bambino interiore.
Gli "altri" sono le persone che sono intorno a  noi, per cui noi viviamo la nostra vita.
AH ECCO - direbbe ancora il bambino - quindi tu vivi per gli altri, non per te stessa!
...
Fregata.
Quando il bambino interiore parla, ti accorgi che alla fine ha sempre ragione.
Il giudizio quindi cos'è?
Credere che noi dobbiamo vivere per gli altri perchè NON SAPPIAMO vivere per noi stessi.
E non sappiamo nemmeno vivere DI noi stessi.
Come se una Vita fosse cosa da poco, solo perchè è una!
Eppure c'è più differenza tra 0 e 1 che tra 1 e centomila. O no???
Risultato: se non rispetto la mia vita, che è una certo ma è la MIA vita, chi altro lo farà?
Mio padre? Mia madre? I colleghi? Il mio compagno? Il guru indiano?
No. Nessuno lo farà.
Perchè se penso di non essere degno di vivere la mia vita, lo penseranno anche tutti gli altri.
Inconsciamente , è ovvio.
E mi tratteranno di conseguenza, come un cane da portare a spasso col guinzaglio.
E sarò proprio io ad aver consegnato loro questo potere, grazie alla rinuncia che ho messo in atto della mia libertà: la libertà di essere chi sono davvero, piaccia o non piaccia al portiere uruguayano e compagnia bella.
Se non mi amo, nessuno mi amerà. Anzi, mi ameranno di un amore malato, un cancro d'amore che si chiama "ricatto", che non farà danni solo a me ma anche a chiunque sarà a me vicino: compagno, genitore, amici, figli, colleghi, vicino di sedile in autobus etc..
Quindi, in poche parole, se rendo la libertà a me stessa la rendo anche agli altri che ne sono inconsapevoli?
Sì, perchè li costringo a VEDERE, ad ACCORGERSI.
Poi, se vorranno continuare a farlo in futuro o meno, sarà loro libero arbitrio decidere.
Ma io in quel momento, nel momento in cui decido di CAMBIARE LA MIA VITA, regalo una chance irripetibile a tutti coloro che sono a me collegati, la chance di guardarsi dentro al di là di stupidi e vacui conformismi, paure, diritti, doveri e millantate responsabilità.
Sto dando loro la possibilità di essere se stessi, come la sto donando a me.

Ecco perchè Gandhi diceva: "Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo".
Per cambiare gli altri bisogna cominciare da se stessi.
Bisogna cominciare dicendoSI la Verità.
E dopo un po' di tempo - per quanto dura sia stata quella Verità detta o urlata - ci si accorgerà che la Vita ce ne rende merito: non solo perchè rende noi più felici, ma anche perchè rende più felici quelle persone che noi stritolavamo con il cappio del senso di colpa, impedendo loro di fare la strada che volevano fare, pur senza saperlo.

L'Anima non mente mai.
Essa ha voce di fanciullo.
E se La ascoltate con sincera pazienza, vi accorgerete che ha sempre ragione.
L'unica reale e profonda responsabilità la si ha nei confronti di se stessi.
Chi non accetta questa realtà, lo fa solo per poter accusare in extremis gli altri del proprio fallimento, del proprio dolore e dei propri rimorsi/rimpianti.

E credetemi sulla parola, vale la pena essere felici.
Con questa carta d'identità, non abbiamo che una vita sola.

La vita è quella cosa che ci accade mentre siamo occupati a fare altri progetti.

- Anthony De Mello -

Francesca



3 commenti:

  1. Veramente meraviglioso! E forse per quanti ostacoli si potrebbero incontrare in questo cammino, non se ne incontrerebbero comunque? Allora tanto meglio affrontare e risolvere quelli che ci conducono sempre più alla consapevolezza del nostro sè.
    :) :) :)
    Carla

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  2. Noi e gli altri ci incontriamo e ci prendiamo cura l’un l’altro e delle cose che ci circondano. La cura è il nostro modo specifico di coesistere con ogni altro individuo e cosa nel mondo. Possiamo prenderci cura degli altri ponendoci al loro posto, ad esempio anche “aspettandoci che loro si aspettino delle cose” da noi. Mettersi al loro posto può comportare sottrarre loro il loro modo di prendersi cura e quindi volerli rendere dipendenti da noi “come un cane da portare a spasso col guinzaglio”. In questo caso si ha una convivenza inautentica in cui gli altri non appaiono come tali, nella loro autentica individuazione. Non ci curiamo dell’altro per quel che è, ma di una nostra proiezione dell’altro. Litighiamo con l’altro, perché con la sua individualità e libertà contraddice l’immagine che dell’altro ci siamo costruiti secondo categorie esterne che ci insegnano come lei o lui dovrebbe essere. Tutto si livella in un mondo impersonale, dove si vive secondo consuetudini, convenzioni e regole: si dice, si fa, si giudica come ci insegnano e ci impongono gli altri, nella mediocrità della quotidianità. Ben venga che tu puoi vivere come una sedicenne. E’ la consuetudine che ti fa credere che quel modo di vivere sia da sedicenne. Tu in realtà hai mantenuto la vitalità, l’onestà, l’entusiasmo … di una sedicenne. Qualche secolo fa non lavorare sarebbe stato un modo di vivere da aristocratico, non da sedicenne.
    Prendersi cura di un altro può forse svolgersi però anche nella forma dell’aiuto nel suo prendersi cura, affinché entrambi divengano trasparenti a se stessi e liberi nella propria cura. In questo caso l’esistenza insieme è autentica. Io non credo di aver mai incontrato nessuno con cui fosse possibile vivere in questa sintonia e mi sembra del tutto illusorio che possa succedere. Non sono però certo che l’aver cura sia di per sé un modo inautentico di essere. Ti auguro quindi di trovare qualcuno con cui vivere in modo autentico. Forse non è solo teoria questa seconda possibilità, ma è realmente possibile. Sicuramente ora sei più autentica di quando “recitavi un ruolo e te ne dimenticavi fino a convincerti di essere quel personaggio immaginario di cui indossavi così magistralmente i panni”. La tua nuova situazione ora è sicuramente almeno un primo passo per non dover scoprire che la tua vita non era stata come avrebbe dovuto essere, quando sarà ormai troppo tardi, dopo anni vissuti ad esempio come "membro inutile di numerose inutili istituzioni” (vedi “La morte di Ivan Il'ič”).

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  3. La differenza del prendersi cura come sopruso o come regalo lo fa la Consapevolezza.
    Se io so chi sono (e lo so davvero) e so chi è l'altro (perchè non si può "vedere" un altro se prima non si "vede" se stessi) posso prendermene cura con vero Amore....
    L'Amore incondizionato parte dalla consapevolezza e dall'Amore per noi stessi. Senza Amore per sè non c'è Amore per l'altro.
    Grazie per le tue parole.
    Sono arrivate dritte al Cuore.
    E credimi, ho già trovato quel qualcuno di cui parli.
    E Lui ha trovato me.
    Regali che la Vita fa quando ci si "accorge" della Verità.
    Un abbraccio.

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