domenica 9 settembre 2012

Il giorno più lungo



Questa mattina, con gli occhi ancora semichiusi a causa del sonno, la mia mente già scalpitava come un giovane puledro chiuso in un recinto.
E mi suggeriva un memoriale da buttar giù con "urgenza", quasi fosse una questione di vita o di morte, mentre il corpo ancora godeva del tepore delle lenzuola. 
Avrei dovuto scrivere del mio passato, di un particolare episodio del mio passato, un episodio cruciale, definitivo per il mio stato emotivo di 21enne; e sarebbe stato arricchito da una dovizia di particolari quasi imbarazzante nonostante la distanza temporale che mi separa da quell'evento. Perchè la memoria non ricorda semplicemente ma racconta una fotografia scattata dalla mente al momento opportuno, come un paparazzo molesto che ruba e svilisce momenti intimi del nostro stesso vissuto, restituendoci appieno l'illusione dell'inesorabile permanenza di quegli eventi. 
Ero decisa a scriverne come si trattasse di una confessione, di getto, tutta d'un fiato, prima di avere ripensamenti lungo la strada.
Mi sentivo non dissimile dal febbricitante Raskolnikov inseguito da demoni silenziosi e inesorabili che non davano alcuna tregua alla propria necessità di espiazione.

Qualcosa - tuttavia - mi ha fermato.
Qualcosa - forse anche la pigrizia - mi ha suggerito: "Lo farai ma più tardi, magari stasera o domani".
Cullata da questa certezza, da questa promessa mi sono dimenticata dell'urgenza.
E ho vissuto la mia giornata.
Fino a quando - leggendo un libro più che profetico - ho avuto una battuta d'arresto.

Che senso ha raccontare il passato per superarlo?
Come si può superare qualcosa se lo si rivive costantemente, come un delitto raccontato dal brillante Poirot e immortalato sapientemente su una pellicola che si può rivedere ancora e ancora a proprio piacimento?

In verità non lo si supera. Ne si riassapora l'amarezza ad ogni singola visione e la si trasmette ad altri.
"In un eterno ritorno senza fede di salvazione".
Mi autocito perchè questo verso mi è molto caro, dato che si trova in una poesia dedicata all'olocausto, argomento di cui mi sono interessata per anni.
Sempre per espiazione.
E ancora per espiazione tempo addietro ho anche comprato il libro di Ian McEwan intitolato "Espiazione", me lo sono fatto autografare dall'autore conosciuto in circostanze piuttosto bizzarre e non l'ho mai letto, alla fine.
Non è un genere di narrativa consona al mio linguaggio interiore.

Perchè?
Perchè ho finito di espiare i miei peccati.
Perchè ho smesso di pensare alle mie esperienze in termini di "peccato", di errore, di caduta.
Cosa si dovrebbe espiare, in fondo? Il fatto stesso di essere vivi?
E di essere se stessi? E di fare esperienze che ci conducono al lido ove oggi consumiamo la nostra cena?
C'è ben altro nella natura umana che valga la pena di essere raccontato.

Quindi il resoconto dei miei dolori, della mia personalissima espiazione verrà abrogato, come si fa con una legge iniqua.
E verrà abrogato anche il ricordo di quel dolore che appartiene ad un passato che - in quanto tale - è ormai morto e non mi appartiene più. Non appartiene più a nessuno.

Io non sono frutto di quel passato.
Sono figlia del mio presente.
A maggior scorno di tutti i Luciano della storia.
Mia e altrui.

Francesca



2 commenti:

  1. Il finale e' quello giusto.
    Perdersi o salvarsi e' per sempre?
    Ci si salva e ci si perde continuamente :)

    Giacomo

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  2. Non ha senso raccontare il passato per superarlo. E' una vana illusione quella di credere di poter sublimare gli eventi costringendo in realtà noi e gli altri a riviverli continuamente. Ed è un errore. Io l'ho commesso per oltre 20 anni. E poi come d'improvviso è cambiato tutto. La mia vita, le persone a me vicine... Ho commesso errori, forse... ho cambiato molte cose, e ne ho capite altre, e ho imparato a conoscere un po meglio le persone, ma soprattutto ad affrontare più il presente del passato...

    Ice

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