sabato 7 maggio 2011

Sympatheia



Come si spiega il dolore?
L'aberrante lacerazione di un attimo che se lo guardi da più vicino è già passato?
Come arrivare a costruire una frase che riesca a rendere l'abbandono una forma poetica comprensibile a livello universale?
Non si può.
E non si può per il fatto che ognuno di noi è complice del proprio dolore, sordamente e stolidamente.
Lo proteggiamo giustificandolo, ne osserviamo i parametri vitali come si farebbe con un malato in coma ormai da anni, ne conserviamo l'aroma dentro un barattolo con l'etichetta in bella vista.
E ci sentiamo colpevoli di questo. E per sbarazzarci del senso di colpa trafughiamo la Verità, la seppelliamo in un'isola senza nome sperduta nel mare della memoria confezionando una mappa astrusa, incomprensibile da conservare negli armadi dell'Io cosciente, pronti a rinnegare la nostra stessa scrittura.
Chi siamo noi per fermarci a capire? Con quale diritto lo facciamo e scaviamo alla ricerca del tesoro perduto, spesso senza mai trovare il segno X perchè non vogliamo allontanarci troppo da casa?
Ho sognato l'Amore, una notte di tanti anni fa. L'Amore che si allontanava sopra una collina, avvolto in uno smoking impeccabile mentre mi salutava con il suo sorriso fanciullesco e le sue mani giovani.
Non ho dimenticato il Suo viso nè il Suo odore.
Aveva il profumo di un bocciolo di rosa e di torta che lievita in forno. 
E sapeva di fette di pane mangiate in riva al mare, di calore donato senza inganni, senza aspettative.
Era solo puro Amore, che non chiede e si dà per intero.
Sono stata contaminata da quell'Amore. E in qualche modo Esso mi appartiene ed io Gli appertengo.
Come si può dimenticare la Verità dopo che Essa ti ha sussurrato dolcemente all'orecchio nella notte il Suo Verbo?

Francesca

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